mercoledì 6 gennaio 2016

TINY DREAMS


Mi sento inutile. Vuota. Un peso.

Morto.

Qual è lo scopo?

Scrivere? Perché?

Se oggi non servo a nulla e domani neppure.

Ieri la mattinata è stata difficile,

ma Cassie era gentile: «Ti porto io a fare un giro»

 

Uscire. Fuori c’è un altro universo.

Assaporo il mondo in un modo che non avevo mai sperimentato. E non importa che siano i soliti posti conosciuti perché hanno un sapore nuovo di scoperta. (Abbandono l’invidia per i miei “amici” virtuali che se ne vanno in vacanza in Australia o in Giappone: adesso ha senso persino un sogno tanto ridicolo da essere contenuto in un fazzoletto, o nel lasso di qualche fermata di bus).

Per un momento sono felice. Lo spazio esiguo di tre ore.

Poi – certo – ripiomberò nell’abisso che mi contraddistingue, fatto di stanchezza.

E di paranoie.

Chi m’impone i ritmi che mi sono fissata? Un libro da 970 pagine è una sfida, una scalata per riempire il tempo. Se dovessi dipanare la trama davanti ai vostri occhi, probabilmente non ci riuscirei; ma l’orologio scorre via e questo basta.

Perché in questi giorni nessuno bussa alla mia porta? Tanto dimenticata che resta solo la voglia di piangere. O magari tentare qualcosa di peggio. Un giardinaggio estremo che porti a recidere tutti i fiori.

 

Non ci pensiamo. In fondo un altro giorno non è poi così lungo se lo divido in piccole porzioni.

Leggo. Guardo. Annoto.

Sono soltanto considerazioni oziose che servono a mettere un po’ d’ordine e a non lasciarmi sopraffare dal dolore. Ma no, non è dolore.

È qualcosa di peggio, più grigio e informe.

 

Cassie è fondamentale

Dolce, se parla con Liz, la muta

 

Mary Ellis è stata spietata ultimamente. Distruttiva, direi

«Tu mi odi» continuava a ripetere D, sempre più amara.

“Devo nascondere che odio me stessa” avrei voluto rispondere, ma è una questione troppo intima.

«Dovresti parlarne con … (e pronuncia il nome di quella donna, l’osservatrice aggiunta per errore”)»; ma io non me la sento, perché non è lei che può aiutarmi tirandomi fuori dal nero in cui ogni tanto sprofondo.

 

D è in crisi perché ha dovuto lasciare il lavoro dopo quarant’anni di routine. Le propongo di cercare delle alternative per non ingrigire in un letto, ma lei rifiuta con un gesto e una scrollata dei capelli – argento rado. «Mi sentirei umiliata sapendo che sto solo occupando i pomeriggi senza che mi importi davvero ciò che faccio» «Ma ci sarà qualcosa che t’interessa: un corso all’università, una scuola di lingue, le tue lezioni di basso …» Sbuffa.

Ma io non posso e non voglio essere il centro unico del suo orizzonte. Non lo sopporterei; e allora la spingo forse ancora per puro egoismo, per il bisogno di non sentirmi in  colpa, in difetto.

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