giovedì 29 aprile 2010

VIRGIN MARIGOLD ON TOUR

Pasqua + 23 aprile 2010



Nel mondo ideale, apro le finestre, lasciando entrare le nuvole. Nel mondo ideale la cucina profuma di pulito tè-verde / pompelmo e crostate ai lamponi, per Pasqua. Potrei tollerare piccoli susuwatari neri di umile buio, ma passo lo straccio e mi siedo sul pavimento. Avevo comprato un abito da comunione in un negozio cinese dei vicoli: un sogno di pizzi sovrapposti ad un decimo del prezzo normale.
Incredibile come si possano svendere anche i desideri che non ci appartengono. Incredibile quanto si diventi stupidi, a volte...
Ho fatto tutta la strada di corsa, sui tacchi dei miei stivaletti da Alice in Wonderland. Volevo arrivare per prima e mostrarti orgogliosa che avevo rispettato le condizioni della sfida.
Chicchi di riso bianchi incastrati tra i sassolini rotondi e regolari del selciato. Domenica su sagrato della chiesa c'erano tre marocchine che intrecciavano foglie di palma chiare, pronte per la benedizione. La messa doveva essere finita, anche se la quiete sinistra degli ulivi lasciava presumere che non fosse mai iniziata. Sono entrata senza fare rumore, per non disturbare il sonno di legno dei santi. La croce, il turibolo arrugginito, una reliquia della piccola Undecimilla:un ditino, o un pezzo d'abito strappato da un mostro marino – la gente crede a qualsiasi cosa, basta inventare una buona storia e offrire un muro a cui appendere la propria fragilità. In fila. Decine di ex voto scintillano d'argento. Ne prendo uno – fiamme azzurre intorno ad un cuore impolverato. Due angeli bruciano e ridono. Sarà il tuo nuovo vintage pendant da sfoggiare in occasioni di gala oda attaccare alla parete, circondato da candele alla fragola, accanto alle foto ingrandite di una calendula dal centro giallo. Sei scatti, in gradazione diversa, bilanciando i colori.
Ti ho incontrata per la prima volta 16 lune fa, ora più ora meno. Nessuno avrebbe creduto davvero che intendessi solo parlarmi della Famiglia, per quello sarebbe bastato infilare un opuscolo sotto la porta. Occhi enormi, cerchiati di kajal profondo e deformati dalla convessità dello sponcino. Ho aperto senza riflettere. Entrando avevi visto le cornici bordate di materiale IKEA: ognuna in sintonia armoniosa con la sfumatura del fiore quietamente riprodotto. Il proiettile aveva creato un grande sole a raggiera sulla stampa numero tre – blu ciano / violìndaco. Attendevano l'esecuzione.
L’ora dell’appuntamento è passata da un secolo. Un cerchio rosso sul calendario, compendio del tempo futuro appeso alla parete da una mano invisibile, un messaggio nella segreteria del cellulare: E’ deciso. So cosa significa, so che non verrai, presa da splendidi progetti per una perfetta uscita di scena. So dove trovarti perché il luogo del raduno è il parcheggio di un Wal Mart abbandonato fuori città. Mi avevi raccontato che era stato costruito sulle rovine di un antico tempio, sostenevi che c’era una vena d’energia luminosa che scorreva tra gli scaffali e le bottiglie di Dottor Pepper – spiriti guardiani alle casse.
Scendo in strada sollevando i mille strati di tulle del mio abito, alzo il pollice sul bordo del marciapiede come in un film degli anni Sessanta e mi arrampico sul predellino di un camion che trasporta gamberoni surgelati. Attraverso il vetro nella cabina noto centinaia di scatole impilate nel freddo sotto zero e immagino nugoli di crostacei nuotare ignari in un fiume vietnamita, prima di finire in una rete. Sul Mekong, un pescatore suona un flauto di bambù: melodia d’ombre verdi e trasparenti.
Mi sistemo sul sedile. Il conducente è un Quijote alto e filiforme infilato in una camicia da red-neck e un prodigioso elmo sponsorizzato da una squadra di baseball. Se è vero che la cavalleria non esiste più, erosa dalle il-logiche del mercato, oggi potrei essere Pippa Bacca nella sua ultima foto: una sposa purissima portatrice di speranza o una sposa cadavere senza fede. Tutto dipende dal fato, baby. Come ti chiami? Ha un lieve accento spagnolo. Eccolo qui, il mio paladino errante. La periferia deserta scorre in scala di grigi: palazzine popolarmente multi-alveare, ecomostuosità da abbattere con la lancia in resta. Madlyn . Simile a Marilyn, ma con qualcosa di folle, perché tutte le persone migliori sono un po’ matte, e poi ha il suono d’argento di una’ipsilon liquida – un campanello nel Paese delle Fate. “Inventarsi una nuova identità ogni giorno”: è un esercizio che mi hai insegnato. A te lo aveva suggerito Layne – ma lui è davvero il leader? – con i suoi capelli rosa e gli occhiali scuri. Non capivo bene che senso avesse crearsi un passato e un nome, soltanto per scrivere un epitaffio migliore. I membri del gruppo avevano già comprato le tavolette di carbonella. Mancava solo la data.
Nel parcheggio le auto dormono in fila. Sono tutti chiusi dentro i loro fumi eterni. Amen .
Quasi piango, cercando iridi d’antracite scintillante nell’opaca uniformità delle portiere sigillate, ma ti vedo: l’orlo del vestito da nozze sporco di fango e polvere, il velo strappato, il revolver in pugno. Fai ciò che non ci si aspetterebbe in una situazione del genere: sorridi. Stanno morendo. Contemplo muta il tuo divertimento. Hai sparato a Layne. Te lo ha chiesto in ginocchio, ti ha offerto la bocca, aperta e circolare. Io sono un angelo. Non ho intenzione di ammazzarmi così. Mi domando quando ti spunteranno le ali e se mi solleverai verso l’alto prima di lasciarmi cadere – Inferno o Paradiso? –
Danziamo per un attimo infinito. Il fuoco nelle mie mani, ora
J’ t’aime
Moi non plus
Ho sempre voluto uno smeraldo ad espansione nello sterno scavato e cauterizzato. La gemma nel tuo petto è il bersaglio Wave the world goodbye.

sabato 17 aprile 2010

Temple of Deimos (Elevator Records)

Benvenuti su Deimos, uno dei satelliti di Marte! In questo disco le atmosfere sono granitiche, desertiche e stoner proprio come sotto il “Red Sun” dei migliori Kyuss. Federico Olia al basso e Andrea Parigi alla batteria sono sinonimo di suoni cupi e ritmo serrato, ma c’è di più. La voce di Fabio Speranza si stacca dai clichè del genere per arrivare a vette emotive impensate, dove riecheggiano i blues di Jim Morrison, ricchi di pause suggestive. Durante il lungo bridge di More heavy for a big tornado ti ritrovi ad aspettare di scoprire se la tua casa sarà trasportata nel Paese di Oz (un ironico incubo à la Josh Homme) o nella grotta di uno sciamano indiano. Piccoli cammei strumetali, sospesi come nuvole, alleggeriscono il muro sonoro: boccate d’aria leggera che fanno pensare alle filastrocche mistiche di Eddie Vedder in Vitalogy. E poi l’ultima traccia, Gulp me down, ti spedisce di nuovo in un abisso, con l’introduzione di David Lenci che per un attimo fa sospettare una collaborazione con Mark Lanegan. Resta ancora qualche piccola incertezza, ma la sonda spaziale della band genovese è partita e promette tante scoperte esaltanti.

giovedì 15 aprile 2010

cerbiji e forbici

05 aprile 2010

Sono sola. Oggi lui non c'è. Datemi dei fiori o una piantina per rendere migliore questo giorno di troppa luce. Ma qui non è rimasto niente. Mi aggiro nel fango dell'ultima pioggia,con un paio di Superga scucite e le forbici in pugno: corolle gialle spuntano tra le erbacce. Qui le chiamano cerbiji: margherite spinose, buone per le galline. O nel minestrone. Adesso la baragna vicino al pero è nuda,un reticolo di fili arrugginiti: non ci sono le rose di Santa Rita. In realtà non mi erano mai piaciute, con il loro sbocciare eccessivo e procace, ma mi si ripeteva sempre che erano le preferite della nonna e ricordo che le coglievamo in mazzolini ordinati, da mettere davanti alle foto ingiallite dell'altare di famiglia. Già, e allora perché non lasciare anche un bicchiere di vermentino, o una sigaretta accesa. Una Wiston light o una MS deluxe, dato che nella mia mente le cose si confondono. Che tristezza. Pare che nel mondo sia una mattina di festa! Qualcuno mi ha detto che aspettano un angelo bianco e senza spada, che apparirà splendente nella piazza sonnacchiosa, davanti al Dopo Lavoro, ma io non ci credo, non posso crederci. Un vecchio attraversa la strada, troppo ubriaco per una profezia.
Brucianti scardassature Bic Lady mi restituiscono la calma, in rosse macchie di Rorscarch Avvolgo un pezzo di carta intorno al polso e fermo il tutto con l'elastico degli asparagi: PRODUCE OF PERU. Da una settimana lo sto usando come braccialetto. La prossima volta che andrò dal fruttivendolo, ne prenderò uno anche per María Luisa. O forse sarebbe meglio di no? Se io fossi nata a Lima come lei, lo porterei con orgoglio, tanto per distinguermi dalla folla, ma... magari invece lei potrebbe offendersi... Non so, proverò a regalarglielo con un sorriso, quando la vedrò all'università, in fondo è solo un pezzo di gomma viola.
La fasciatura protegge i vestiti e evita che il detersivo irriti le ferite mentre lavo i piatti di ieri sera. Ho i guanti, ma sono enormi e l'acqua mi scola lungo le dita. Devo fare una doccia prima di uscire, per togliermi di dosso l'odore di sapone scadente. Al supermercato, non ho trovato quello che uso di solito – piacevole profumo di frutti di bosco. Cosa posso farci se sono abitudinaria? E in questa casa lo sporco sembra riprodursi con una specie di partenogenesi demoniaca. Ci sarà almeno una spugnetta per pulire il forno? Non ho nessuna voglia di avere un colloquio con S. Giuda! Aggredisco un'incrostazione marrone con una paglietta verde poco convincente. Credo che una vacanza sarebbe l'ideale ora, se servisse a farmi dimenticare per un momento chi sono. Il Portogallo dev'essere meraviglioso in primavera: il Douro, quiete colline verdi, i monasteri, lo stile manuelino – ancore e conchiglie elegantemente scolpite nel marmo dei palazzi. Non è necessario vivere, è necessario navigare. E forse non serve neanche una rotta precisa. Mi piacerebbe srotolare sul tavolo una mappa medievale e tracciare un itinerario fantastico pieno di curve, partenze e ritorni. Userei uno di quei pennarelli a punta tonda che hanno i chirurghi plastici nei telefilm americani, così il viaggio diventerebbe il mio nuovo corpo da cambiare,modificare. Anche questo presuppone dolore e rimango ferma. Ogni passo è una fitta, un sussulto caldo nella cavità dove doveva essere il cuore e poi a destra, riflesso, giusto sopra al seno, contro l'ascella...
Mi siedo al computer e scrivo parole proibite, con un imbarazzo da ragazzina vittoriana nelle dita. Le mie emozioni saranno purificate prima che si alzi e riempia la cucina di un'aria pesante di sonno e senescenza.
La capisco. O vorrei capirla?
Ogni ruga è una preoccupazione che precipita, il segno del tempo che non frena la sua corsa lenta. Quanti secoli mancano alla pensione, tra un'ispezione del capo e una scenata del collega nevrotico? Desiderio di silenzio che crea distanze siderali.
Il pranzo dalla sua migliore amica si preannuncia come una lunga giaculatoria monocorde di malattie, acciacchi e decessi, cercando di evitare gli sguardi curiosi alla mia bottiglietta di succo di mango tropicale, troppo terreno e materiale, i numeri stampati sull'etichetta. Zero possibilità di fuga.