domenica 14 dicembre 2014

CHEAP THURSDAY


Sdraiata nel letto tutte le ossa mi fanno male: sono diventante pesanti e al contempo porose come spugne. La posizione di lettura mi ha intorpidito un braccio. Dovrei alzarmi. Il gatto di pezza riempito con noccioli di ciliegia si è raffreddato e richiede l’ennesimo giro di microonde. A fatica mi tiro fuori dal viluppo di coperte e, passando di fronte alla porta aperta del bagno, l’odore di sapone mi fa venire in mente Annie.

 

Ci siamo viste ieri, per una colazione al nostro solito baretto. L’ho abbracciata aspirando il profumo di shampoo Johnson’s dei suoi capelli e, mentre lei sceglieva quale muffin abbinare al tè, ho ordinato un filter coffee per provocare quella tiepida irritazione che avrebbe tenuto impegnato il mio stomaco nelle successive tre o quattro ore.

«Come stai?» Era stata appena bocciata all’esame per accompagnatrici turistiche ma l’aveva presa sorprendentemente bene e dedicava gli ultimi giorni miti a passeggiare sui monti in cerca di castagne e di foglie rosse per il suo erbario. Sorrideva, come sempre. «Ho deciso di provare a seguire il corso per diventare insegnante». Era incredibile il suo modo luminoso di trovare nuove idee «Sai, adesso siamo in bassa stagione e qualche supplenza potrebbe essere redditizia». Non sembrava che avesse messo in conto il buco nero dei concorsi in questo Paese disgraziato, ma farglielo notare sarebbe servito solo a spegnerla inutilmente e non sarebbe stato gentile, quindi mi sono limitata a rimescolare il liquido nero perché uno shottino di latte (opportunamente dosato) si diffondesse come una tempesta solare nella mia mug.

«Intanto mi godo i soldi che i miei mi hanno regalato per il compleanno. Oggi mi accompagni a fare shopping?» Indossava una giacca con dei grossi alamari di bachelite nera, lucidi come il dorso di una balena dell’Antartico, e una maglia di cotone bianco; tra i due, un soffice golfino di cashmere grigio perla.

«Dovresti provarlo un giorno o l’altro. Ti fa sentire coccolata!» E mi aveva fatto toccare un lembo di quella nuvoletta di lana asiatica;

Intanto pagava il conto e saltava sul marciapiede dirigendosi a passo veloce verso un negozio minuscolo, affastellato di articoli d’abbigliamento “alternativi”, nel quale io non ero mai entrata, per via dei prezzi che, nonostante si dichiarassero “friendly”, rimanevano comunque troppo alti per i miei standard da magazzino cinese. Per questo, ero un po’ a disagio aspettando che lei uscisse dal camerino con un paio di jeans che la fasciavano alla perfezione. Avevo appena letto un articolo del Daily Mail in cui si sosteneva che le Barbie rendono le bambine anoressiche e, guardando Annie che si voltava davanti allo specchio, non avevo potuto fare a meno di pensare a una versione emancipata di Betty Berry «Ti stanno benissimo: ti fanno anche un bel …» E avevo mimato una certa rotondità per evitare di essere sentita dai due ragazzi dietro il banco della cassa che intanto erano impegnati a pogare su un pezzo di rockabilly californiano, come se il mappamondo fosse impazzito e fossimo finiti di colpo a Santa Barbara.

Qualche minuto dopo, era uscita di nuovo dallo stanzino, aveva ripiegato i pantaloni e li aveva lasciati su una pila di loro simili, lisciando le pieghe con la punta delle dita. «Magari ritorno»

Il tono disinvolto mi aveva svelato il gioco, perché anch’io lo facevo spesso: si trattava di provare ciò che ci piaceva, fare una foto col cellulare e poi – ovviamente – non comprare nulla. «Grazie, a presto» Pur sapendo che non sarei tornata, avevo preso nota del posto e della cifra sul cartellino scritto in rosso, che ora penzolava triste sotto l’etichetta come un segno identificativo in una sala autoptica.

 

È questa scena a brillare vivida nella mia memoria quando un arcobaleno novembrino rimbalza sulla porta di vetro smerigliato della toilette, ricordandomi una delle più semplici forme d’amore.


http://youtu.be/z1MSgWeZqAU

sabato 15 novembre 2014

SI ALZA IL VENTO


 

È l’ultimo giorno del Festival della Città Impossibile. Oggi ci sarà la sfilata dedicata allo Studio Ghibli, per i venticinque anni del suo personaggio più famoso. A pensarci è curioso: come mi ha detto un mio amico, siamo l’ultima generazione che guardava “Bim Bum Bam” alla tv; l’ultima generazione che pagava in lire (un “millino” di focaccia e un estathé, per colazione); l’ultima generazione che ascoltava le audiocassette. Siamo gli ultimi paladini di un tempo pulito. Siamo quelli cresciuti senza internet. L’ho notato ieri, mentre il Cugino IT descriveva i ragazzi che avevano viaggiato con lui in treno dal punto A al punto Z: «Uno lavorava al computer, l’altro aveva l’I-pod acceso, il terzo giocava con una consolle e il quarto non ha smesso un attimo di mandare messaggini» … Non ha parlato di qualcuno che leggesse un sano, vecchio libro …

Il tempo dev’essere corso via con una piroetta che non sono riuscita a seguire.

Era stato l’argomento dell’ultima seduta sulla poltrona Ikea (modello Poang). La constatazione di Violante era arrivata tagliente, senza mezzi termini: «Molte persone che conosci sono andate a vivere all’estero, vero?» La bomba era caduta con uno schianto verticale. «Sì, e presto anche Magami se ne andrà … A coltivare scimmiette in una piantagione di dragon fruits» Perdere mia sorella: la prospettiva mi angoscia come lasciare una buca nel bel mezzo di un’aiuola, dove dovrebbero esserci dei fiori … A Natale comprerò una coppia di webcam, ma so già che la comunicazione via satellite sarà sempre difficile e di rimbalzo, lontana e un po’ asettica – corrispettivo tecnologico dell’amicizia di penna con una ragazza-madre di Bangalore. Sarà come lasciare indietro l’altra metà del cuore, dopo aver affrontato troppi strappi simili eppure meno dolorosi. Sylvia, Chris e per un certo periodo anche Annie … tutti dispersi in nome della fuga dei cervelli che è diventata la nostra emorragia nazionale.

 
E poi, più in piccolo, persino Liv aveva cambiato i suoi orizzonti (e per questo ora poteva ospitarmi nella Valle del Carnevale). E mi è sembrato strano. E poi innaturale. E poi di nuovo strano che gli amici d’infanzia si sposassero, avessero figli, comprassero cucine componibili.

La bambina che quando eravamo piccole m’inseguiva nei bagni recitando la parte di Brigitta – Fuori e dentro le toilette. Piastrelle rosa sui muri. «Paperonuccio! ♥» – ha organizzato un matrimonio da favola (con palloncini e fiori, riso e farfalle. E un bellissimo abito-nuvola, bianco e rosso sul seno generoso).  Cerco regali per i bimbi appena arrivati. Hanno occhi limpidi, pieni di fiducia.



Mi piace scegliere cappellini di Hello Kitty e giocattoli di legno da costruire e da trascinare su rotelle colorate. Ho visto anche tanti morbidissimi peluche sui banchi che celebrano i grandi registi dell’animazione nipponica. Ovviamente eserciti di animali grigi con le orecchie dritte e pupille tonde e modellini dell’astronave del pirata dello spazio, ma gli stand tesi nelle piazze rinascimentali sono una magia momentanea e io, lontana da qui, non avrei più un personaggio da interpretare. Solo adesso Erin è completamente viva e io non provo sensi di colpa, cambiando banconote e caricandomi di sacchetti e opuscoli.

Ho seguito decine di conferenze riempiendo mezzo quaderno di appunti da riportare nelle recensioni dei prossimi mesi. Sento il cervello ribollire di bollicine effervescenti, come le caramelle che mia nonna teneva sempre in borsa. Penso ancora ai giovani che non usano il tempo del viaggio per leggere. Non potrei rinunciare all’affannoso moltiplicarsi dei neuroni su nuovi panorami …

Un mangaka agita timidamente la mano, quando mi vede ancora e ancora in prima fila. Si parla di realtà, di dodici zombie e delle torri di Tokyo – Lo Sky Tree è la più alta dell’universo. Si pinta come un ago negli occhi spalancati del Cielo.

Non avevo mai conosciuto un disegnatore indiano: un bell’uomo, lunga chioma nera. Racconta il suo percorso spirituale mischiando la new age all’arte nel suo inglese musicale e mentre risponde alle domande, abbozza su un dio con molte braccia, descrive il mondo. Dal tramonto all’alba.

lunedì 13 ottobre 2014

POETIC MADNESS / ATTACK ON TITAN


Corro sulle mura della Città Impossibile, mentre il cielo si riempie di nuvole grigie. Ok, dopo giorni di primavera bloccata sulle ultime note d’ottobre, l’autunno sembra davvero arrivato, nelle pozzanghere che m’inzaccherano le scarpe, e nella pioggia che mi sommerge le orecchie, mi pare di sentire – lontano, sotto gli spalti medievali – qualcuno che mi grida un insulto gratuito. Evidentemente ci sono persone che non hanno capito la nostra follia e non apprezza la festa di colori che invade le strade per quattro giorni di pura fantasia – Siamo teneri e furiosi come Don Chisciotte innamorato che fa le capriole attendendo la risposta della sua dama immaginaria.

Io non ho un personaggio, se non me stessa (Erin è viva in questo mondo in sospensione narrativa): vestito grigio col cappuccio a quadretti, leggins leopardati fluo e una maglia che brilla al buio – Le facce storte degli spiriti silvestri mandano bagliori verdi nella tempesta.  «Non è ancora carnevale!» urla un ragazzino ignorante con il cappello appena appoggiato sopra al gel, ma io preferisco pensare che sia un eroe dalla spada a forma di chiave che mi dice «Sei bellissima anche così, col cuore quasi fermo. Sei bellissima anche così, con gli occhi vuoti di una bambola rotta»

Sul muraglione, in corrispondenza della discesa centrale c’è un uomo di uno scultore da televendite Potrebbe essere un gigante senza pelle intento ad attraversare la breccia del Wall Sina per divorarci tutti e si potrebbe credere che io abbia l’attrezzatura per il movimento tridimensionale mentre volo sul fango.

E scivolo.

Quando mi rialzo, provo un dolore sordo, come di legno spezzato: devo essermi incrinata un paio di costole sul lato sinistro, ma forse tornerebbero a posto se domani indossassi un corsetto di stecche di balena comprato su un banco di moda vittoriana – un orologio con cammeo sul collo della camicetta bianca.

Sono stordita. Prendo tra le mani un ciondolo di phimo che penzola infortunato dalla catenina: ad Alice manca metà del fiocco tra i capelli;

Ad Alissa manca metà dell’anima.

Ma mi riprendo subito e tento di ricordare qual era la meta. Volevo raggiungere un’epoca azzurra, in cui i giorni erano felici. Cristina D’Avena avrà già iniziato a cantare nell’auditorium stracolmo di fan alla ricerca dell’infanzia perduta (perché in questo mondo non c’è più magia per Johnny).

Mi pulisco la faccia con una salvietta e la scena intorno a me smette di ballare. È colpa mia. A pranzo ho mandato giù solo una lattina di coca cola zero – di quelle grandi, però – e le bolle che mi riempivano la pancia devono essere scoppiate da tempo. Ma ora non importa: il teatro è là in fondo, ai margini della piazza e magari riuscirò a trovare ancora un posto-pavimento. Dopo valuterò un modo per tornare a casa, dato che la “solita” corriera oggi fa servizio ridotto.

 

Alle 19:05 c’è un autobus che mi aspetta alla fine della pensilina numero 5: il nome luminoso sul display è quello ma il tragitto è diverso, lungo e tortuoso.

Ci lasciamo alle spalle le case per inerpicarci sul monte, nel fitto di un bosco scuro à la “Blair Witch Project”. Aspetto che i fari illuminino il cartello bianco della mia destinazione e mi avvicino al conducente che guida come un pazzo, aprendo le porte ancora in corsa. «Scusi … » esito fino alla frenata successiva «… In genere scendo subito un passaggio a livello, dove c’è un distributore e il centro commerciale dell’elettronica …» «Ti posso lasciare lì vicino» Burbero ed essenziale, mi avverte qualche curva più in là e io mi precipito giù afferrando disordinatamente la giacca, lo zaino e la borsa ma, sola sul marciapiede, non so da che parte andare.

All’andata, ho condiviso il viaggio col cugino della mia amica ma adesso lui è rimasto indietro. Ha conosciuto dei tizi che possono regalargli delle “abilità speciali” da nerd o forse dei “punti ferita” e mi ha abbandonato, in barba alla cavalleria e al Dolce Stil Novo.

Respiro a fondo – compatibilmente con lo stridore delle ossa piegate – salgo su un dosso di cemento armato e finalmente, quasi rinfrancata, mi dirigo verso le stelline accese dell’insegna al neon – novella maga in cammino verso un rifugio incerto.

La via che cerco è nel cuore di un reticolo intricato e si distingue solo per la vibrazione fonetica di due vocali ripetute ma nessuno ha idea di dove sia esattamente. E comunque, qui la sera ci sono soltanto Uomini-con-Cane annoiati, ciabattanti e rassegnati che passeggiano in tondo sulla sponda del canale. Le barche bianche sonnecchiano pigre.

Probabilmente all’alba, usciranno a pescare. Qualcuna verrà trasportata col rimorchio sull’autostrada intasata, come in una pubblicità metafisica di un secolo fa.

Ora, gli scafi ondeggiano nel vento – la burrasca si è placata (dopo avermi allagato le scarpe) – e io conto le caselle sul mio calendario virtuale. Ho due giorni di vacanza / lavoro, durante i quali scrivere. Leggere, fare shopping … Non mi va di preoccuparmi di ciò che succederà tornando alla routine quotidiana, non mi va di telefonare a Cassy per raccontarle le mie avventure.

Lei è a Roma e di sicuro si sta divertendo, senza di me. Si è presa una pausa.

Ieri, quando l’ho sentita, la sua voce era fresca, rinata in mezzo alle rovine. Lucidamente leggo il suo miglioramento come un segno evidente della mia colpa.

Vinco l’ultima serratura e schiaccio l’interruttore per ritrovare il corridoio, la mia camera e la cucina silenziosa. Sul tavolo c’è un biglietto: “Torniamo tardi (faccina triste). Cenate pure senza di noi”.

Non so spiegarlo, ma ci resto un po’ male: avevo risparmiato lo spazio necessario a mangiare un hamburger di seitan che Liv, da buona fata vegana, aveva preso apposta per me, dopo aver analizzato coscienziosamente le tabelle sul retro di tutte le scatole del supermercato biologico: non poteva sospettare che persino il minimo sindacale mi avrebbe causato problemi e io, per riconoscenza, volevo mostrarle quanto sono brava a giocare d’equilibrismo.

Pazienza.

Ingoio a vuoto un rivolo d’amarezza, strappo un pezzo di carta da forno e cuocio la fettina per cinque minuti, provando a ignorare i resti sporchi di colazione che il Cugino IT deve aver lasciato in giro stamattina.

Metto a bollire uno zucchino e faccio zapping tra il nevischio dei canali.

23.36 Le palpebre sono pesanti, la testa ciondola disarticolata.

Spengo i led luminosi e mi avvio verso la mia stanza, sotto un piumone di Willie Coyote.

Domani la sveglia del cellulare suonerà alle 7.30 e sarò di nuovo pronta a catapultarmi nella confusione assurda dell’amore visuale che trasforma i connotati di un intero borgo, sovvertendo le regole della festa e riempiendo ogni via di rumori e di corpi effimeri.   



http://youtu.be/DwLV52Ut048

sabato 4 ottobre 2014

DIECISIETE AURELIANOS


 
 
Sono seduta sulla biancheria sparsa dentro il cassetto aperto, mentre Padre Fomanger ripete la filastrocca della Quaresima: “Convertiti e credi nel Vangelo”/ “Ricordati che eri cenere e cenere ritornerai”. I fedeli fanno la fila, segnati come i figli moltiplicati del colonnello fallito. Ognuno incolla l’ostia al palato e nasconde un segreto.

Io
Non riesco a concentrarmi.
 
Stasera mi sono fermata da Cassie, trasgredendo le leggi non scritte che vietano di infrangere la bolla tra pubblico e privato. Ho suonato al campanello del suo ufficio perché lei da un po’ ignora volutamente i miei mille messaggi che dicono “Mi sei mancata”. La porta si apre e l’esordio è come sporcare una pagina bianca: «Sono in ansia» E avrei voluto dire: «Raccontami la fiaba di quando mi amavi; raccontami di quando forse avrei potuto essere felice» Sono rimasta lì, parlando di sciocchezze tra un timbro e l’altro. Aspettavo che mi dicesse: «Ho solo perso il ricettario segreto e ho dimenticato come si preparano le torte alla fragola, ma ho scoperto mille modi per usare i tuoi albumi d’uovo». Sarebbe bastato anche: «Andiamo a fare un giro ché i cinesi sono ancora aperti».

Da mesi devo comprare una cornice per la foto 30x40 che mi ha regalato un artista della galleria e, presa dal turbine orizzontale dei chilometri (Qualcuno a Natale mi darà un contapassi?), l’ho semplicemente arrotolata e abbandonata sul bordo del divano. Visti i legami del tizio con la Royal British Sociaty, penso che quel pezzo di carta lucida valga qualcosa (come se un agente americano girasse con una maglia con scritto “I’m with the CIA”).

Penso. Forse sarebbe bastato un caldo abbraccio per sopravvivere nel più freddo dei reami. Cassie mi dice dei suoi colleghi che impazziscono dietro alla compilazione dei nuovi moduli informatici.

Secoli fa ho chiesto un consiglio professionale a uno di loro ed sono ufficialmente morta in attesa di un responso.

Punto e accapo

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Me la sono cavata guardando i video di Marco Bianchi su YouTube. (Rifletto: “Come posso usare la frutta secca?”) →
Tempo fa, un’amica si era stupita vedendomi bere il mio primo “vero” caffè, grazie alle ricerche sul sito della Starbucks Corporation. Non poteva sapere che quell’americano in tazza grande mi costava cento punture di dolore; e avrebbe dovuto lodarmi come se avesse di fronte un’eroina dall’armatura di cristallo fumante «Ti trovo meglio dell’ultima volta» … Avevo controllato con le dita il mio pallore giallognolo per assicurarmi di essere sempre la stessa.

Magari avrei avuto bisogno di qualcuno che mi dicesse: «Sei bella come una mandorla di Almyros» ma ormai è chiaro che dovevo abbandonare l’ideale della mamma che impasta dolci, la domenica.

Le avventure contro i misteriosi virus mandati dal ministero mi passavano sulla testa senza sfiorare la corteccia cerebrale. Ho deciso di aspettare che lei finisca il lavoro, che l’ultimo foglio sia riempito (click), stampato (click) e vidimato (stomp); poi prenderò la mano per tornare verso casa, come se non ricordassi la strada dentro il buio di novembre, perché lei si  è persa l’indicibile tramonto delle cinque – mentre io ho annusato la trasparenza della luce color malva – e non le resta che un cielo d’un blu oltrenotte con tre lune appese a un filo. L’unica soluzione – la soluzione finale – è muoverci verso il presente, fidandoci alla cieca dl pacciame sul bordo della strada - Cumuli di foglie pronti per il compost autunnale.

E così mi ritrovo di nuovo accoccolata in mezzo ai mucchi caotici eruttati dagli armadi.
Tolgo l’audio della pubblicità. La voce roca e acerba di K copre i transiti intestinali di una soubrette-ventre-piatto (I can't explain just why we lost it from the start /Living without you girl, you'll only break my heart...).
 
 

domenica 14 settembre 2014

LEECH'S GARDEN



Willam John Leech A Covent Garden, Brittany
 
10.04 a.m. Incontro Eloisa e Annie all’Isola di Pasqua, il nuovo bio-locale che hanno aperto in centro. «Oh, come stai bene!» In realtà i miei vestiti denunciano una cronica mancanza d’autostima: in ufficio sono arrivate le ennesime stagiste intercambiabili. Troppo carine, troppo simpatiche, con un curriculum troppo perfetto.

Basta un attimo e il tuo astro si offusca.

Solo qualche giorno fa ho fatto un po’ di prove nel camerino non-videosorvegliato dei grandi magazzini più chic della città: gonna e camicetta di Okäidi, abitino Disegual. Io lo chiamo “photoshopping”, ovvero i miei sognanti outfit da principessina quasi milionaria si possono vedere gratuitamente sui social network più seguiti.

Ecco a voi il mio personale quarto d’ora di celebrità. 

Dunque riassumendo, ho cercato nel mio armadio speleologico qualcosa che mi distinguesse – Ehi, guarda qui! Sono speciale – e sono contenta (se si esclude il muffin integrale al mirtillo che mi tenta dal piattino delle colazioni eleganti). Allontano i sassolini che rotolano nella risacca della mia gastrite infiammabile e riesco persino a macchiare un caffè filtrato in tazza extralarge.

Mary Ellis calcola: «Cosa succederebbe se mi concedessi un assaggio di dolce? … Solo una briciola … Se non mangiassi più per tutto il giorno, forse potrei» …

 

L’idea è di fare un giro al mercato per cercare agrumi da asporto, anche se poi dovrò riportare in dietro le bucce per pesarle vuote, sentendomi come Pollicino.

Le mie amiche condividono l’allegria generale in scatti adolescenziali che immortalano il tavolino basso, l’albero fatto di parole scritte sul muro e la tisaniera in cui galleggiano bacche di rosa canina. Ognuna lancia un amo, una piccola scoperta che vortica nell’aria e ricade – puf –

Progettiamo le nostre vacanze di bassa stagione: ho preso una guida dell’Irlanda, mentre Eloisa traccia percorsi in mezzo alle rovine ittite di Cappadocia. A D non l’ho ancora detto. Ultimamente non le si può parlare di niente. Per colpa mia, è diventata acida e cattiva come la Strega Gramigna.

In solitario, la mia insonnia progetta itinerari “Dublino e dintorni”. Certo, non posso permettermi l’avventura nella brughiera selvaggia ma cerco di non pensarci e m’innamoro dei palazzi storici, dei pittori, degli scrittori e persino delle birrerie.

 

«Vorrei dei miyagawa: sono mapo due punto zero, ibridi alla seconda tra mandarancio e pompelmo. Però ho deciso che li prenderò solo dal fruttivendolo che lo sappia scrivere correttamente! » Ho visto di tutto, fantasiose composizioni di “i” e “y”, “w” e “u”. «Fai prima a scriverglielo tu su un pezzo di carta!»

Le risate mi riempiono il cuore.

Devo succhiare un tacchetto di liquirizia per alzarmi la pressione.

Sono stanca,

Schiacciata da un infinito universo di cose da fare, da vedere, da leggere. Avrei bisogno di dormire, o meglio di spegnere il cervello e dimenticare tutto.

Sono stanca.

La tristezza mi lascia macchie rosse sui polsi. Devo comprare una polsiera di spugna rosa e delle bende pulite, ma questa cornice dolce mi tranquillizza, per un momento.

Eloisa ha puntato delle nuove scarpe. Come tutte le donne soffre di una specie di ossessione feticista per i tacchi alti e gli stivali di pelle. Gioca con la sensualità delle sue forme. «Ma quanto sono stupidi gli uomini?» Qualche giorno fa – racconta – stava vendendo i campioni di una bibita in un chiosco e, per attirare clientela, si è messa delle cannucce in mezzo alle tette. «Ho fatto quasi ottocento euro in una sera!»

Io non so cosa significhi piacere a qualcuno,

Suscitare desiderio,

Ingoiare ed essere ingoiata,

Bere ed essere bevuta.

Ci sono state – forse – alcune rose nel mio giardino, ma non le ho mai colte e il destino sarebbe stato diverso se fossi stata un'altra persona … Ma non ho intenzione di parlare di questo. Non sono ancora pronta. O forse non voglio rovinare l’armonia, la luce dorata dei riccioli di Annie – la mia Betty Berry – o la fiamma rossa del sorriso di Eloisa.

Non merito l’aura positiva di questa mattinata di tardo ottobre, però posso godermi il tepore, scherzare finché è possibile. Le foglie cominciano a rosseggiare sulla vite americana, lungo il recinto del mio palazzo e in fondo alla mia mente Erin ha nostalgia degli aceri nei parchi di Nara, ma sono qui; non sono lei. Sono una ragazzina imperfetta.

Annie guarda l’orologio «Dai, per stavolta offro io» si è fatto tardi «Ho la bici qui vicino. Vi accompagno al mercato e poi vado, devo vedermi con la tizia della distribuzione alimentare» Filiera corta, commercio sostenibile: molte famiglie adesso lo fanno, per fronteggiare la crisi o solo per ridare un senso alle traiettorie impazzite della merce.

Alla terza bancarella, scegliamo due finocchi e un cetriolo. Eloisa conta gli spiccioli nel portafoglio sotto lo sguardo di un commesso distratto dalle sue curve.

 

Un giorno – quando sarò più forte – racconterò tutta la verità sui fiori che ho perso per strada, ora no. 


lunedì 8 settembre 2014

THE STEAMPUNK EMPIRE An unsteady world

 
«Pronto, Buongiorno. Associazione Culturale Contrasti, mi dica … » Una voce arriva dall’oltretomba di un ricovero per pazzi «È uscito il catalogo. …. Cos’ho vinto?» le sillabe smozzicate collidono col mio tono professionale. Non so quasi nulla dei dettagli organizzativi, ma Ondine è impegnata in mezzo alla polvere del piano di sotto. Gli operai sfondano i tramezzi e dipingono le pareti di fucsia, come il vino rosso versato su di una tovaglia. «Là nell’angolo vorrei mettere una fontana o un’acquasantiera» Si è vantato il Boss, brandendo le chiavi del labirinto … e intanto i nostri stipendi scorrono via insieme all’acqua sporca del secchio di Tony, il tuttofare.

Strizzando il mocho nell’apposita fessura, tenta di ripulire i detriti dell’ennesima esplosione «Che begli occhiali che hai!» È stato l’unico a guardarmi in tutta la giornata. E dire che ero così fiera degli occhialoni da moto costruiti da mio nonno: autenticamente vintage, fantasticamente old-old fashon. «Sì, grazie» con un senso di sollievo gli racconto tutto della mia famiglia, di quell’uomo dagli occhi azzurri come laghi d’inverno – occhi un po’ tristi, che non rendono nelle foto in bianco e nero –, dei campi di lavanda sul confine francese, delle colline verdi che nascono dal mare … Beh, no, forse non dico tutto questo perché non c’è lo spazio né il tempo, ma lo penso; e il pensiero fa sbollire la rabbia quotidiana.

 

Ho telefonato al Boss. Il suo smagliante smartPhone vibra nella trasferta nevrotica di Milano: nell’incertezza di una fiera-per-soli-compratori nell’era della Crisi, per ora c’è soltanto un numero infinito i etichette sbagliate e una scatola piena di chiodi e di viti. «Senti … per la scadenza di oggi …» gli ricordo, tentando di sovrastare il rumore dei trapani in sottofondo «NON HO TEMPO!» taglia corto lui, troncandomi la frase. Ci riprovo, caparbia. Sono sei mesi che manchiamo ricorrenze d’ogni tipo. «Lo so, per questo sono entrata nella schermata del computer. Devo solo inserire i dati» «TU NON INSERISCI NIENTE, CAPITO!?» Tuona, come Susanoo prima di scoperchiare la sala del Palazzo Celeste. Ma no, il paragone non calza perché non c’è irriverenza o anarchia nel ruggito, quanto piuttosto l’imposizione collerica del Leviatano. «Ok, ok …» Conto fino a dieci … congiungo indice e pollice: “Ohm”. Salgo di nuovo le scale bestemmiando e ficcando le mie cose nello zaino. Ho bisogno, assoluto bisogno di passare da Sócrates a fare un po’ di shopping. Sull’agenda ho una lista infinita di cose da chiedergli: di sicuro troverò la mia consolazione momentanea.

La rabbia mi spinge come il vento.

Sincronizzo il passo, ancheggiando sulle strisce pedonali.

«Hai qualcosa di Capitan Harlock? Vorrei essere preparata per la prima del film!» esco dal negozio con un tascapane nuovo. Sul lembo di chiusura campeggia un’immagine del Pirata dello Spazio meravigliosamente anarchico in versione anni Settanta. Il nuovo capitolo dell’eterna saga sarà tridimensionale, con un immaginario generato a computer. Bello e cupo per le generazioni future.

Tutto cambia precipitando troppo velocemente.

Un mio “amico” scrive in rete: “Noi siamo stati gli ultimi ad ascoltare le musicassette” – Ricordate il fruscio delle TDK copiate? “Siamo stati gli ultimi a pagare la colazione in lire” –  Chiedevamo al panettiere un millino di focaccia e un Estathé. “Siamo stati gli ultimi a guardare Bim Bum Bam” – Siamo quelli cresciuti con la Strega Gramigna, Uan e For, mentre oggi Cristina D’Avena è un mito imbalsamato sul palco delle convention di fumetti.

 

Tornando in dietro, già più calma e rasserenata, anestetizzata dalla droga del possesso, entro nel bar che hanno appena aperto davanti al mercato.

“Pace della mente in un mondo instabile” c’è scritto in inglese sulla mia tazza di caffè filtrato (e io scatto una foto da condividere).    

Spio i colori vivaci delle piante nei vasi, sulle bancarelle di fronte. Il liquido scuro ristabilisce il ph del mio cervello e dello stomaco ulcerato.

 

Da due giorni quasi non dormo.

Brucio e mi contorco in silenzio. Nei rari intervalli in cui il rumore della televisione mi culla, sogno di cantare perdendomi in cielo pieno di stelle e mi sento un po’ come K: mi pare di capire di più il suo dolore, il pigiama usato come abito da cerimonia, le dita lunghe da poeta, lo sguardo smarrito dietro il sole.

http://youtu.be/9uWwvQKGjLI

giovedì 24 luglio 2014

CYBER TINKERBELL


Se il buongiorno si vede dallo stalking, io assaporo il piacere superiore di farmi inseguire. Due messaggi e una notifica. Certa gente non ha abbastanza immaginazione da alimentare autonomamente il proprio cervello e t’invade la casella di posta di presenze indesiderate.
Spengo il cellulare e respiro.

In realtà, cerco d’ignorare il mio corpo gonfio. Stringo alla mia pancia la pancia calda di un gatto pieno di semi di ciliegio, mi alzo la maglia, controllo la pelle azzurra. Ho ufficialmente perso l’ultima aeronave, la cultura ormai è un’opinione da dilaniare.
Sono un’aliena scappata dall’Area 51.
Il Presidente della Terra sogna droni fatati che svolazzano come Apsaratt-roditori tra i capelli di Lady Lovely – tutte le guerre della storia in origine erano “lampo”.
Il papa digiuna in un assordante digiuno mediatico ed io – che per decreto non posso astenermi dalla regolarità asfissiante dei pasti – domani chiamerò l’esorcista che prescriva yogurt alla pera plus cereali, con il tocco magico dei bacilli vivi.
E intanto posto faccine verdi su facebook e misuro l’estensione della solitudine.
Una ragazza di Shinjuku libera un cuore-farfalla dal centro del fiocco sull’uniforme: Tokyo sarà di nuovo olimpica dopo le passate glorie di Mila Hazuki.

Ieri il mio amico Tyler ha suonato il campanello «Ciao, ero ad allenarmi qui vicino e ho pensato di fare un salto a trovarti. Posso salire?» Sembrava la domanda del Principe a Raperonzolo, ma io ho un lungo dreadlock al posto della treccia e ho sorriso ricordando altri tempi, sulle stesse scale. «Scusa se non ti bacio, ma sono tutto sudato» «Vuoi fare una doccia?» Due eoni fa, lui veniva da me invece di andare in piscina poi, nel bagno, inzuppava gli asciugamani di spugna, li ficcava nella sacca sportiva e fingeva di aver nuotato per ore.
Poi le sigarette al peperoncino hanno aggravato la sua asma.

Adesso siamo cambiati. Il ragazzo che mi sta davanti vuole mettere su una palestra e imparare a suonare la tromba.
Parliamo di fumetti e telefilm, progettiamo di andare insieme al prossimo grosso evento per cos player: io con un mazzo di fiori di carta in mano, lui con una coda fiammeggiante che gli spunta dalla divisa. Probabilmente mi sentirò in colpa subito dopo aver comprato il mio costume in rete (cinquanta euro per l’ebbrezza momentanea di diventare un’eroina a due dimensioni), ma mi giustifico dicendomi che la vita è una sola, e la mia è già troppo mutilata e offesa.

Quand’è che lui aveva lanciato la proposta di un viaggio in Giappone?
Se provo a pensarci, Erin grida forte nel mio sangue. Si rivolta. Si agita. Urla: «Cassie ora ti darebbe il permesso e i soldi» Bisbiglia: «Se volessi partire, lei verrebbe addirittura con te» Mi pare persino che brandisca uno spadone o un ventaglio affilato. Dev’essere Erin che mi ha inciso gli ultimi segni – precisi e netti – sul polso, sotto il bracciale di gomma viola. «Con Tyler mi sentirei in imbarazzo e Cassy non condivide il mio amore» rispondo. L’Altra-Me tace. “Non voglio che la bellezza venga inquinata dalla frustrazione”: questo è l’argomento definitivo, quello che nasconde il vero dolore. Non posso cambiare. “Erin, non posso permettere che i tuoi ricordi siano sporcati”.
Meglio tornare coi piedi per terra; meglio valutare una piccola spesa di spedizione per una gioia monodose. «Dai, ti mando il link, così mi dici cosa ne pensi, ordiniamo i vestiti e ci organizziamo» (Ma se anche questo fosse troppo? Se fosse troppo stupido?)

«Tyler, ti va una merenda? Un po’ di spumante?»
A questo punto Cassie si era alzata per andare a prendere un bicchiere di prosecco frizzante e una coppetta di budino al choco-mango che io avevo preparato fin dal mattino.
Mi piace credere che la domenica sia un giorno speciale, anche se alla fine continuo a lavorare battendo sui tasti.
Anche se non posso assaggiare i cristalli di zucchero colorato.
Fin da bambina e anche dopo, da donna mancata, mi sono sempre sentita come se stessi partecipando a una gara di conversazione brillante. Avevo paura che mia madre mi rubasse le battute, rendendomi ridicola e decorativa.
Per questo l’ho allontanata con disinvoltura.
Per questo lei si è lasciata allontanare.



mercoledì 16 luglio 2014

LOTUS GUN


Non sono mai stata così male in vita mia.

Mentre sullo schermo Kim Ki-Duk costruisce una pistola per vendicarsi d»i chi l'ha tradito abbandonandolo e poi progetta il proprio suicidio con un filo di nylon, io penso alla vecchia carabina napoleonica del mio bisnonno e al rumore che farebbe il proiettile attraversandomi il cervello – Ready! Action!

Facile.

Un colpo nel pogo ha deviato l'assetto del mio scheletro, che ora si sta sbriciolando come da previsioni. I pensieri sono neri. Catrame.

La linea verticale di un tronco divide in due un cielo di un azzurro esasperante. Lampi di sole e un mare di lapislazzuli michelangioleschi che comunque non mi appartengono.

Una persona che secoli fa ha smesso di essere Cassy evita qualsiasi contatto emotivo, strappa via qualsiasi distrazione «Sei in pausa?» Da giorni sono chiusa in questa stanza aspettando una proposta “divertente”, ma lei non parla. O non riceve risposta.

Solo ieri sera, dopo aver acceso la radio sul programma rock della notte, ho sentito un rumore sommesso in cucina e, dopo una breve apprensione, ho capito che lei era sintonizzata sulla stessa stazione e stava canticchiando la canzone che anch'io stavo ascoltando, con l'inglese inventato tipico della sua generazione.

Ma poi la commozione e la giovinezza sono svaporate nel nuovo mattino pieno di grilli. Ultimamente mi rivolge solo domande apprensive: “Come stai?” si alterna a “Sei stanca?” , ma oggi c'è una novità, un ordine quasi perentorio: «Va'  a chiedere un limone alla vicina». Come se comunque non la vedessimo tutti i giorni, un'anima inquieta piena di ansie che entrano in conflitto con le mie producendo scintille d'insofferenza.

 Quella donna è la new entry della mia segregazione. «Che palle!»  «Hai detto “Che palle!”?» ... Se provassi a ignorare che ho solo trent’anni e sostituissi la parola “tristezza” con “quiete”, magari le cose andrebbero meglio, il buco nel petto si rimarginerebbe e io potrei respirare. In fondo i due termini sono quasi sinonimi, nel mio dizionario.

Mi sfilo gli auricolari. Poso il rasoio.

Ho del sangue che mi cola su una mano.

Potrebbe essere un elemento interessante per la curiosità pettegola della gente?  “Io mi faccio gli affari miei ma ...”; “Hai visto quella? Di sicuro è malata o una tossica, te lo dicevo io!” A volte esco di casa con un foulard avvolto intorno alla testa, per alimentare le leggende

Camminando lungo la curva che mi separa dalla casetta affianco alla nostra, rivolgo i palmi in basso, chiamando a testimonianza la terra e l'asfalto, come un Buddha post-moderno (che rotola giù da una scarpata).

Quando torno indietro (rabbuiata e senza limone – rubato da qualche mano invidiosa, perché si sa che l'albero sul confine è sempre più giallo), il reticolo di rughe di D è concentrato nella preparazione di un piatto di gamberoni. Le teste sono ammucchiate da un lato. Musi lunghi che mi fissano malinconici come chansonnier francesi, con lo sguardo lucido e senza sclera. ... L'attrice del film coreano che stavo guardando aveva occhi simili: due stelle d'antracite brillante. «A quanto pare niente salsina per stasera» annuncio sbattendo la porta della mia cella in sala.

Quello era stato il “salotto buono”, o così doveva essere prima che mia nonna si ammalasse e gli ospiti si diradassero come i suoi capelli grigi. Da quel momento era diventato il logoro teatro di una separazione famigliare, con mia zia curva sui suoi tomi di filosofia a covare risentimento e una ragazzina vivace – destinata a essere mia madre – che nascondeva i fumetti sotto i libri di testo. Durante la guerra, la libreria a muro era stata una dispensa segreta dove stivare le provviste all'insaputa dei soldati ma ora c'erano solo file di volumi inutilizzati, romanzi estivi e raccolte di filastrocche infantili. Le ciotole piene di conchiglie sono coperte da uno strato di polvere e, se ne avvicinassi una all'orecchio, non sentirei più il rumore delle onde che ormai sono troppo remote. Nemmeno io ricordo il suono della risacca, eppure c'è stato un tempo in cui mi piaceva andare alla spiaggia nelle mattine torride d'agosto, entrare in acqua e spiare il fondo, “fare la stella marina” trattenendo il respiro, con le braccia e le gambe allargate e poi tornare sulla sabbia, stendermi sull'asciugamano e leggere qualche pagina senza l'ossessione del lavoro da sbrigare. Già, “ossessione”... da un po' D non fa che spiarmi amareggiata «Devi farti aiutare! Stai davvero peggiorando, conosco qualcuno che potrebbe ...» La fermo sempre a questo punto perché so che nominerà Violante e la mia presunta debolezza, so che dirà che mi invento cose assurde per accusarla. Non voglio sentirmi di nuovo oltraggiata e umiliata. Vorrei solo che lei mi capisse ... ma adesso non conta più, almeno non nell'immediato. Stiamo per partire. Questo significa che non vedrò più l'orizzonte punteggiato di vele e non soffrirò più come un bambino povero in una pasticceria di lusso. È finita e forse, dopo le liti e i pianti, sarò io a riprendere il controllo della carta dei menù. Il mio corpo deformato potrebbe addirittura tornare a posto ... In fondo nulla è perduto: vivo in una città sulla costa e basta una mezz'oretta di treno per avere una piccola baia fatta di scogli, tranquilla e pulita. Quest'anno la bella stagione è cominciata in ritardo e sembra che durerà ancora per un paio di settimane.

Seduta di fronte allo schermo immobile, con le cuffie inserite nell'apposito foro, immagino un settembre mite e i ciottoli levigati che rotolano a riva sotto i miei piedi.

mercoledì 25 giugno 2014

SOPRAVVIVERE ALLE SERATE DANZANTI


Torno a casa.
Sull’autostrada
La macchina sbanda contro il vento;
immersa nel vento.
Un camion si accosta sulla sinistra … – Forse Cassy non dovrebbe più guidare.
… Il camion trasporta colombe bianche per un matrimonio … – Lei ha un cerotto che le annulla la visione periferica.
… Aumento il volume del mp3 player per non sentirle tubare isteriche ogni volta che una curva mette in dubbio la stabilità dei loro trespoli nella pancia della balena. Nella bocca del lupo.
Una mia amica si sta per sposare ed io non ho ancora scelto il vestito. D’altronde lo sposo si presenterà in infradito all’altare sulla prua di una nave ecologista. Se fosse la mia cerimonia vorrei quanto meno un abito da victorian lolita, ma è passato il tempo di sognare la cerimonia perfetta. Non mai avuto niente di simile all’amore. Se dipendesse da me, gli sposi indosserebbero dei costumi cosplay e la cerimonia probabilmente sarebbe officiata da Tyler vestito da suora (Cosa posso farci? Adoro gli anime a sfondo religioso e le divise dei preti-combattenti hanno un loro fascino oscuro).
E i regali? I miei amici erano eco-attivisti – di quelli che speronavano baleniere con un gommone verde – e avevano voluto solo donazioni da versare al loro movimento contro il sushi di delfino. Nella mia lista nozze ci sarebbero stati piatti di ceramica Imari e squisite biscottiere Wedgewood (“Io al massimo ti posso fare una decorazione biancazzurra lavorata all’uncinetto” mi aveva detto una volta Ondine, la mia collega, piena di creatività e di tenerezza). Avrei avuto un set di biancheria da cucina di Totoro, una radio portatile con presa USB da tenere sopra il frigorifero , un mixer multiuso sul ripiano accanto ai fornelli e uno stampo di silicone per preparare dei macarons rosa – perché non è da tutti cucinare dei dolcetti domenicali canticchiando una canzone dei Mudhoney (mi pare che il testo ripeta “La ragazzina di papà non è più una ragazzina”, o qualcosa di simile, adattandosi al momento).

A questo penso seguendo la linea continua sull'asfalto. Il cellulare vibra.
Sylvia notifica: “Sarò in Italia a novembre, non so ancora le date precise. C’incontriamo?”
Telepatia.
È stata lei la prima crisalide, quella che poi non è diventata farfalla.
Non la vedo da anni.
Ricordo che quando eravamo insieme, provavo un vago senso di disagio.
Ho sempre avuto un corpo troppo pesante per sperare di poter passare attraverso le sbarre della mia prigione.
Ora sospiro annusando l’aria che sa di nuvole, il cielo diviso a metà.
«Dài, ammetti che quando siamo in paese tu sei più serena» Non rispondo.

 Per forza di cose, là il mio cervello si spegne in assenza di gravità, lontano dal mondo degli esseri umani, in catalessi emotiva. Per non sentire l’orchestra che accompagnava la sagra della salsiccia, accendevo la radio e cercavo qualcosa da fare che mi portasse lontano, ma i miei piedi erano perennemente incollati al pavimento.
Se solo avessi potuto raggiungere il mare, tutto avrebbe avuto un senso. Ma lo specchio rideva mentre il mio corpo si gonfiava come un pallone e lei ripeteva che era fisiologico “Una reazione psicosomatica”.


Avrei voluto trasformarmi in un anacoreta che si nutre solo di lucertole. Ti ricordi Sylvia? Da bambine avevamo dato un nome al geco che viveva tra le tegole del tetto … Ora se n’è andato anche lui, ucciso dall’ennesimo inverno.

http://youtu.be/FOUDDcIsokU

venerdì 13 giugno 2014

FALSI TELAI / Domina



Giro per il soggiorno fotografando le bussole e i sestanti d'ottone lucido appesi alla parete. Questa è indubbiamente ancora la casa del Capitano, anche se le tutte le sue immagini sono state meticolosamente eliminate – il rimosso nascosto in un cassetto. Sono qui come ogni anno per i due giorni che m'incoronano sorella dell'anno ma stavolta io e mio fratello Sam apriamo finestre di dialogo inaspettate sulle sue nuove passioni: il rock e la fotografia. Lo scambio di file dura ore e passa per un complicato intrico di cavi che fanno stridere le casse mentre Margot spennella olio sui mobili del giardino, circondata dalle mosche, e Todd sistema il garage sudando a fiotti.   «Che ne dite di andarcene a prendere un aperitivo al fresco?» «Potremmo fare un giro nei boschi dell'Entroterra» In questo ferragosto appiccicoso, l'ombra sembra un miraggio. Il fuoristrada scantona sui tornati e il cane, con la testa fuori dal finestrino e le orecchie aerodinamiche sta per prendere il volo come il rago-cane Fùcur nella “Storia Infinita”, ma una sterzata brusca sbalza il corpicino contro la leva del cambio con un tonfo sordo. Primi segnali di tensione che si stemperano con una sosta a picco sull'abisso di ulivi cangianti. Ci infiliamo come esploratori nelle rovine devastate di un locale abbandonato «La polizia l'ha fatto chiudere perché era un covo di nazisti rissosi. Guardate, hanno devastato tutto!» Passiamo su cumuli di calcinacci e vetri rotti custoditi dai fondali marini dipinti sulle pareti e, mentre io immortalo la medusa che fluttua lungo una colonna, gli altri sono già immersi in un giardino selvaggio custodito da una venere decapitata. «Le hanno anche disegnato il sesso con un pennarello: che idioti» puntiamo l'obiettivo sull'oltraggio e poi risaliamo le scale bilanciandoci con le braccia larghe come funamboli.
Il paesino a cui approdiamo dopo una serie infinita di curve offre la fiaba di un cavaliere d'amor cortese istoriata nella maiolica sui muri e un mercatino festivo, presieduto dagli immancabili vecchietti da bar, ottimi per uno scatto in bianco e nero accanto alla tromba muta di un grammofono. Persino le bolle scure che mi riempiono la pancia sono piacevoli e riesco a non pensare a niente lasciando che la conversazione volteggi a mezz'aria. L'atmosfera è tornata spensierata e anche la cena in veranda ha il sapore di una quotidianità possibile, ripresa dopo un'interruzione casuale.
Sparecchiando, ci ritroviamo in cucina a sparare video dal I-phone improvvisando balletti improbabili «Sarebbe ora di andare a dormire, ché domattina dobbiamo svegliarci presto» Margot sistema il divano allineando una marea disordinata di cuscini ma non voglio perdere il filo della complicità con Sam «Beh, allora noi due andiamo di sopra. Buonanotte» dico strizzando l'occhio e incrociando le dita dietro la schiena. Raggiungiamo l'isola surreale del letto illuminato di rosso dalle lampadine rosse per provare altre canzoni sotto l'onda morbida delle lenzuola scarlatte «Ma cos'è questa, una camera oscura o un boudoir?» rido ammiccando.
Nel pomeriggio ho conosciuto i vicini: una coppia con una figlia dodicenne sottile e liscia come una canna di bambù, con i capelli color miele raccolti in una coda. Continua ad essere inevitabile che io provi invidia per la preadolescenza che non ho più e che non ho mai avuto, per la capacità spontanea di ammirare la luna e di aspettare il futuro.
... Samuel scarta argomenti imbarazzanti e ascolta i frammenti della mia piccola lezione di grunge che inizia dagli albori. Sembra convinto, con quell'entusiasmo contenuto tipico dei maschi della sua età. «Scrivimi i nomi delle band così mi cerco la discografia» Trovando uno scopo fortuito, corro veloce: vorrei condividere mille emozioni eclettiche, eclissate per un periodo infinito.  Accendo l'mp3 player del cellulare e la lista scorre aleatoria ...

Venerdì mattina saluto Margot, sconvolta dalla levataccia. Ha battagliato tutta la notte con Todd che, ostinandosi a condividere lo spazio peninsulare del salotto, adesso ronfa della grossa sdraiato di traverso mentre lei alle tre è migrata in un rifugio più tranquillo e silenzioso. Qualcosa non va. Le strutture sentimentali scricchiolano scoprendo le giunture.
Era scomparsa la ragazza magra e luminosa come un'ombra che con il suo corpo e il suo profumo si era portata via la metà di Altair – quando Al aveva deciso di diventare Tair – aveva smesso di fumare e era un po' ingrassata.
  Il caffè borbotta sul fuoco e, studiando le tracce del Capitano segretamente dissimulate, mi pare di cogliere il bandolo della proverbiale matassa.
Mary Ellis aveva smesso di parlare con lui, ma non per l'offesa di frasi goffe e crudeli; ora capisco che gli rinfacciava l'ennesima fuga – umana ma poco paterna (perché un padre dev'essere in primo luogo un supereroe) – di fronte a una figlia-mostro che non sapeva gestire, troppo affamata e taciturna.
Segno titoli e gruppi sulla lavagnetta in cucina, usando il gessetto verde appeso a un filo sul bordo dell'ardesia decorata da gatti. «Ci vediamo in un week-end di metà ottobre» Sam si è alzato e sta pulendo col dito un barattolo di Nutella per regalarmi il bicchiere delle Tartallegre, e si limita ad annuire.
Le mie cose sono pronte vicino alla porta.

Salgo sul treno con un sacchetto pieno di pomodori e melanzane del loro mini-orto. Per il viaggio, ho preso in prestito un libro dagli scaffali «Poi spediscimelo, ché devo fare la scheda entro settembre» «Vuoi che te la prepari io? Tanto a me serve comunque» Sam abbassa la voce «Se me la mandi, gli do un'occhiata» Sono contenta di essere utile in qualche modo.

 Parto più leggera, con un appuntamento quasi fissato e uno spiraglio di normalità nel cuore.

http://youtu.be/k7CPIXnaeeQ
http://youtu.be/14r7y6rM6zA




giovedì 22 maggio 2014

ESPUMADOR



Ho imparato che dietro al dolore c'è sempre altro dolore, come i cereali dietro una barretta di cioccolato al latte.
Quando mi sveglio, il pomeriggio non è ancora fresco e il mondo fuori è immobile come l'avevo lasciato.
Preparo un caffè con la polvere solubile, mescolo l'acqua calda rompendo la schiuma scura in superficie e lancio il cucchiaino nella conchetta dei piatti sporchi, di rimbalzo, con la precisione di un cestista.
Quella delle riserve idriche stagnante è una mania particolare del paese, come fossimo in una savana africana e in realtà non sono riuscita a dormire molto mentre una zanzara cercava di pugnalarmi le pupille. Il risultato è che sono stordita, incapace di articolare parole su un computer quasi privo di connessione. Guardo sconsolata le colonnine del segnale che lampeggiano in agonia e mi viene in mente l'ultima puntata del solito telefilm medico: un paziente malato di SLA decide di farsi staccare il respiratore per donare i suoi organi ancora funzionanti. Con i circuiti bollenti potrei costruire una macchina per il trasporto dimensionale che mi porti lontano da qui.
«Vado a farmi un giro. Cercherò un posto tranquillo e all'ombra dove leggere»
Seguo la strada che abbandona le case e si dirige verso il Santuario sulla costa. Aumento il volume tonante del mp3 e riprendo il vecchio gioco di camminare solo sulla linea bianca lungo la carreggiata. Mi sento come un cagnetto scaricato sull'autostrada o uno dei bambini di Stand by Me, anche se non c'è nessuno a cantare con me. Il paesaggio è vuoto. Poche persone, miniature in un quadro fiammingo. Per evitare un ragazzetto palestrato che sta truccando il motorino nel suo bel giardino succulento, fisso le rovine di una carrozzeria arrugginita, buttate in un orto di ulivi: sembrano gli aerei dell'aviazione inglese nascosti nei campi greci. Le foglie sugli alberi lanciano occhiate verdargento.
Mantengo i passi sulla curva di gesso anche quando rasenta gli spigoli di un muretto a secco, anche attraversando un roveto carico di fiori di gelso.
Penso a Sylvia. Insieme passavamo ore su quell'asfalto sciolto dal sole a concatenare sillabe, ma ora lei se n'è andata per vivere un destino in technicolor, fatto di smorfie buffe e magliette a righe in una città dalla squisita allure francese tardo-coloniale. La sua immagine digitale  ha i colori pacati del filtro “calmo”. È immersa nella luce cangiante delle vetrate di una cattedrale neo-gotica e sorride stringendo la tazza di carta di un espresso ultra-lungo e mi lascia indietro.
Allungo il passo quando la striscia si fa discontinua per restare in equilibrio sopra l'abisso, un frammento dopo l'altro. I segmenti slabbrati sono monticelli di coca da cancellare con una sniffata. Si diventa iperattivi o socievoli o aggressivi, prima dell'epistassi inevitabile. Ricordo la scena di Pulp Fiction in cui Uma collassa e John le  fa un'iniezione di adrenalina dentro un puntino segnato sul cuore con un pennarello.

Niente da fare, la linea bianca mi riporta inesorabilmente indietro. Quando apro il cancello, Cassy è sul terrazzo con il rigattiere albanese, che ha portato in regalo un'inquietante sedia da barbiere anni Cinquanta che, piegata e piena di polvere, rievoca certe rasature definitive alla Sweeney Todd. Mangiano mini-susine gialle, brindano a spuma – altro residuato post-bellico che solo qui resiste alle evoluzioni del mercato – e lui sta riportando gli ultimi aggiornamenti dal bollettino dei necrologi: «Comunque la signora che viveva nel Condominio non è morta» Dei sessanta abitanti di Bottomburg, sessantuno hanno già passato i cent'anni e la lista dei decessi è diventata la principale fonte di gossip sulle panchine dei giardinetti – per il resto infestati da cani, tossici e bambini in proporzione variabile.

Poco prima avevo visto la vecchia in questione affacciarsi al balcone per controllare l'andirivieni sul marciapiede che considera suo dominio personale. Sembrava la Calavera  Catrina, ma con un'aria decisamente meno simpatica.
Saluto con un cenno apatico per evitare di essere coinvolta nella conversazione, mi infilo in sala e cerco  una connessione ballerina. L'etere vibra, provando a ribellarsi. Inserisco i numeri d'accesso e la chiavetta lampeggia con uno sforzo ubbidiente.
La realtà scorre anche senza di me. In un centro sociale stasera suona un gruppo giapponese. Stringo i denti e cancello la notifica.
Dietro al dolore c'è sempre altro dolore”.
La mia tazza è rimasta sul tavolo. Vado in cucina e aggiungo dell'acqua calda direttamente del rubinetto ignorando gli organismi mitocondriali che scendono nelle tubature – tanto verranno sterilizzati dalle microonde. Per un attimo provo a visualizzare come sarebbe essere uccisi da un bombardamento di radiazioni che scindono e surriscaldano ogni molecola. Le ditte americane raccomandano di non mettere i propri animali domestici dentro gli elettrodomestici ma, finché non apri lo sportello, il gatto è sia vivo che morto ...  


La vita ha un sapore diluito e sporco che bisogna trangugiare in un sorso. Per non avvelenarsi. 
http://youtu.be/Au0OUrhn-x8
http://youtu.be/jMfKZOBo74w

martedì 13 maggio 2014

TAMING ALISSA


 
«Ehi, è pronto!» Controvoglia chiudo il computer e spengo la luce, pronta per l'ennesima dose di prediche.

Ieri Cassy - nelle vesti amare di D – ha scoperto uno dei miei imbrogli numerici e ora mi sta col fiato sul collo (a questo punto è come quando in clinica ti metti in fila per la pasticca). Non sarà piacevole.

Faccio una smorfia. “Perché mi ha chiamato se la cucina odora ancora di cane bagnato e sul tavolo regna il caos di Sodoma e Gomorra?”

 

In realtà Cassy sta cercando espedienti per risvegliare il mio scarso interesse. Due giorni fa è riuscita persino a strapparmi una risata «Ti servono delle magliette brutte per stare in casa?» Dispiega una t-shirt bianca con la scritta “La storia di Francesco” sopra a un disegno simil-cubista «Adesso sembra una maglietta del papa!»

 

Il nuovo obiettivo è analizzare l'intricatissimo orario delle corriere che scendono “in città”.  Accompagnarmi in macchina la ferisce con tutto il peso di ciò che lei non è più ma andare da sola mi conferma l'incredibile solitudine che mi porto dietro.

Sospiro.

La prima tappa sarà la stazione: devo comprare un biglietto per andare a trovare mio fratello Sam (anche se penso che rovinare i suoi pomeriggi di fancazzismo vacanziero una volta l'anno non sia sufficiente a definire il mio ruolo di sorella maggiore).

Il parallelepipedo dell'edificio nuovo ha un che di pretenzioso e ridicolo, coi due binari piazzati sul fondo dei tapis roullant perennemente rotti, ma per oggi mi fermo nell'atrio semi-vuoto e aspetto il mio turno dietro a due tedeschi in tenuta balneare.

Il supermercato sarà la seconda meta, tanto per rimpinguare scorte e varietà di cui mi vergogno (e che è meglio non specificare). Passando tra gli scaffali stipati di merce multicolore scelgo anche un succo di frutta e un pacchettino di biscotti da offrire nel caso il tuttofare albanese torni con la sua splendida bambina di due-barra-tre anni. Giovedì è passato prima di andare allo spettacolo dei burattini nel campo sportivo polivalente. La piccola ha i capelli color miele, due occhi enormi da Bambi e un vestitino azzurro ... Potrebbe essere Alice prima d'incontrare il Bianconiglio, prima che suo padre la dichiari pazza e tenti di rinchiuderla. L'ho guardata muovere timidamente la manina per salutarmi e sono tornata per un secondo umana, con il vago desiderio di sentirla parlare. O di farla sorridere ....

Dunque l'idea è di comprare una merenda per addomesticare la mia volpe, ma il panorama di curve che si snoda giù per la collina mi colpisce come un insulto, con un cobalto screziato di bianco tanto bello che meriterebbe di essere in un quadro impressionista (o almeno in una buona riproduzione) e invece mi sta davanti, troppo reale perché io possa raggiungerlo.

Mi siedo sull'autobus sforzandomi di concentrarmi su qualcos'altro. Alzo al massimo il volume della musica per annullare le conversazioni di due ragazzini ma uno di loro mi tocca su una spalla «Sorridi, che la vita è bella!» Il tono, come sempre è beffardo. Non rispondo, non reagisco. Sono una statua di pietra. “Sarà bella la tua, di vita, stupido truzzetto di periferia con il cappellino rigido. Ti sentirai momentaneamente appagato ora che puoi titillare il nuovissimo modello di I-Phone”.

“E comunque, io sono sprofondata tante di quelle volte che  per uccidermi non basterà di certo la tua battutina appesa a un filo di ragno”. Aumento ancora i decibel e provo a immaginare il mio cervello che esplode  tappezzando l'abitacolo di materia grigia (solo che non è grigia. È verde smeraldo. Perché sono un'aliena).

Al ritorno, sulla piazza del paese, mi ricordo della lezione degli irriducibili punk scozzesi. Se un insetto ti molesta, ti giri con un movimento abbastanza fluido del polso e gli molli una catenata dritta sul naso. Per questo, alle 19.09 ora locale entro dal ferramenta e chiedo cinquanta centesimi di anelli ferrati da serrarmi intorno al collo con un'opportuna spilla da balia. Il commesso, ovviamente, non capisce. «Vieni giù che ti faccio vedere» Armato di tenaglie, mi porta in un capannone sotto il livello della strada (non nascondo che la situazione ha dei risvolti inquietanti).  «Attenta al ... » Cammino su di una pozza di cemento scuro e uniforme. Mi guardo indietro: forse ho lasciato l'impronta come una star del Walk o' Fame? No, non ci sono tracce. Evidentemente non sono destinata a restare nella memoria distorta dei poster(i).

 

Come previsto D ha smesso di parlarmi (stiamo facendo il gioco del silenzio per vedere se così riusciamo a respirare senza sbranarci) e l'atmosfera è pesante – come a dire “Per quanto ti ribelli, saremo sempre prigioniere, ma chi è il carnefice e chi la vittima?”. Invece d'informarsi sulle novità del mondo esterno (che mi disturba), lei si limita a incurvarsi sulle sue piante, con una tetta che le penzola fuori dal costume giallo. Ecco un'altra mirabile barriera per tenermi a distanza ... Un giorno o l'altro potrei lanciare un aeroplanino acceso tra le foglie.   

http://youtu.be/xGQ6dCUSfHc

venerdì 11 aprile 2014

COME LA FRONTE DI UN GATTO ABBANDONATO


Alla bottega non c'è mai ciò che mi serve: lo yogurt è puntualmente troppo grasso (con le cifre scritte in rosso), le verdure superano il numero di calorie consentito e persino il pesce sembra migrato altrove, lontano dai banchi che espongono prezzi da orefice alimentare.
Il mio mutismo immusonito condito di sarcasmo rassegnato indica che lo scontro con D è rientrato  nei ranghi del quieto vivere. Ovvero mi guardo intorno e so di dover accettare la condanna proprio perché sono rinchiusa nel ruolo della prigioniera (che non può esistere senza un carceriere). Impossibile scappare dal piccolo mondo ammuffito delle chiacchiere vuote, popolato da comparse in grembiule e gambaletti che sembrano maschere di cera sciolta, donne che sono diventate decrepite senza conoscere nulla.
Non importa che Janis oggi parta per il Messico e che Malva  Marina si  svegli urlandomi nella testa, come colpita da un insulto (“Chi non ne ha il diritto vedrà luoghi che dovrebbero essere miei!”).
E io?

La madrina di D, dentro una scatola verde motorizzata si ferma per darci il benvenuto nei pettegolezzi della strada, in un posto dove esistono ancora le “madrine” e gente che se ne ricorda: «Siete arrivate tardi quest'anno» guarda il cielo striato di nuvole «Beh, forse farete in tempo ad andare in spiaggia». Vorrei ribattere che sono a due passi dal mare ma non potrò raggiungerlo perché il mio corpo mi rigetta. La pancia si gonfia e la pelle si riempie di macchie – di certo amerei i palloni se solo servissero a volare!
Qualcuno mi giudica lanciando sentenze come sassi senza peccato, ma nessuno di loro ha provato un nanosecondo di questo dolore che si autoalimenta dall'interno, con il bruciore dei fiori che sbocciano sui polsi. Non ho portato il mio kit di giardinaggio cutaneo e quindi vado fino alla farmacia: «Vorrei dei cerotti e una benda» «Per farci cosa?» Cerco una locuzione neutrale «... per le escoriazioni ...» e reprimo l'impulso di dire: «Per cancellare ciò che sono, per possedere ciò che non posso avere» ma la commessa in camice bianco ha il tono sollecito di una madre-medico – quella che ho dimenticato e non quella ricordo troppo spesso – e così aggiungo, per continuare il gioco del “curiamo la bambola ferita”, «Mi dia anche un disinfettante, ché ora ci sto buttando sopra l'alcol per pavimenti ma forse non è indicato» Lei reagisce con un sorriso scandalizzato alla mia ingenuità, come la responsabile del pronto soccorso in un telefilm americano.

Sembra che non c'entri ma ho sognato che K era tornato ed era sul palco, ancora ragazzino,  per un  nuovo concerto. “Ma sarà veramente lui? Sì, altrimenti David e Krist  se ne sarebbero accorti” Se fosse stato un impostore l'avrebbero cacciato e invece sono lì a sudare con lui (uno scrittore si chiedeva da qualche parte se un sostituto si può trasformare nella cosa vera).
Sembra che non c'entri ma tra il pubblico c'è la Vedova, che tutti chiamano così non per il lutto ma per semplice titolo legale. Ha i capelli neri senza l'ossigeno platinato che cicatrizza anche i tagli profondi e gli occhi chiari di prima che suo padre le regalasse acidi per colazione. Così al naturale potrebbe addirittura essere una mamma, sempre un po' eccessiva, burrosa e avvolgente; una moglie che promette più sesso che affetto. La bambina è ancora piccola, sistemata su uno dei seggiolini di plastica della tribuna. Muove le manine a tempo e ha ancora tutto il futuro davanti.
Sembra che non c'entri ...

Mi alzo che è già quasi-sera – “Qui non c'è nulla per cui valga la pena stare sveglia”  – e Cassy prova a offrirmi un ramoscello di pace truccato da gita turistica: «Ti va di scendere in città?» Ai piedi della collina, sotto i terrazzamenti che toccano il mare c'è una crocchia di vie affollate di fantasmi che solo l'occhio rosso della nostalgia può scorgere dietro ai profili degli hotel a cento stelle, sul lungomare degli yacht. In centro ci sono mille gelaterie, boutique semi-vuote, una libreria che vende solo gialli della domenica e un negozio di prodotti biologici. Entriamo ma il lumicino della speranza si spegne subito contro la voce fredda della proprietaria freak «No, abbiamo solo questo tipo di salsa di soia ... No, l'acqua di cocco è finita ... no, ...» Eccomi di nuovo di fronte a un mondo di cose che non posso avvicinare. Cassy si siede spiandomi con commiserazione; sono così arrabbiata e delusa che pesterei i piedi.

Sul porto un gruppo di rock occitano fa le prove per la serata.  


http://youtu.be/5BE1KRj5iiM
http://youtu.be/1-GvSHRO_yE