lunedì 29 marzo 2010

SLAM DUNK deluxe

Takehiko Inoue



DISEGNI: 8
STORIA: 7



Sono una delle poche creature vergini, non contaminate da un adattamento italiano che dicono volgare e dialettale, anzi probabilmente sono una delle pochissime persone che non ha mai visto una sola puntata di Slam Dunk. Posso quindi giudicare serenamente, con gli occhi della novellina, questa ristampa in edizione deluxe con una nuova traduzione e preziose tavole a colori. Si riconosce la maestria di Inoue in un disegno ancora acerbo ma buono, già raffinato nel rendere soprattutto i tratti psicologici dei personaggi. Il carattere spaccone di Hanamichi Sakuragi con la sua enorme banana di capelli rossi mi ha fatto subito pensare alle gag comiche di Due come noi (Kyô kara ore wa), ma con una finezza umoristica che mancava a Nishimori. Lo spettoro delle personalità è completato nel modo più classico: Haruko, la ragazza dolce e timida incarnazione della virtù, e il fratello tirannico e inflessibile capitano della squadra di basket; e poi Rukawa, introverso e geniale. Niente di banale, però: ognuno promette di svelare un mondo nella cornice degli ideali di dedizione, perseveranza e amicizia tipico dei valori nipponici.

venerdì 26 marzo 2010

consigli


BAKUMAN


DISEGNO: 10
STORIA: 8

La coppia Obata /Ota non si smentisce e firma un’altra serie innovativa e interessante. Due ragazzi delle medie tentano di sfondare nel mondo dell’editoria diventando mangaka! Tutti i segreti di un disegnatore saranno svelati dall’interno, con frequenti richiami alle opere a fumetti più popolari (compresa qualche ironica citazione di Death Note: forse è la prima volta che ci si trova coinvolti da un simile “sguardo da vicino”?
Non manca il tocco romantico con l’amore platonico epistolare e grafico tra il protagonista Mashiro e la sua compagna di classe Azuki. Un rapporto che nasce sulla base di un sogno (quello di lavorare insieme per un anime) e che si svilupperà, pare, solo via mail. È una descrizione della società giapponese: un mondo contradditorio che impone continue restrizioni, regole e rigide convenzioni e in cui funziona ancora una logica che somiglia a quella delle tragedie kabuki; i giovani hanno spesso rinunciato agli ideali per appiattirsi su desideri morbosi di sesso dozzinale.
La vicenda di Saiko ricalca quella più sfortunata di suo zio, autore di un solo manga umoristico di successo, un gag hero manga. Nella strada per raggiungere la meta (un anime prodotto prima dei 18 anni) non ci sono supereroi, solo le tre caratteristiche base: superbia, sudore e fortuna.

Un difetto, se proprio ne vogliamo trovare uno: come avveniva già in DN, a volte le battute sono un po’ troppo lunghe e rendono poco scorrevole la lettura.
Comunque da non perdere!!!!!

venerdì 19 marzo 2010

RED AMARYLLIS

Diciannove marzo sul calendario. L’aria inizia appena a scaldarsi di sole. Scenderò al supermercato a comprare una Beck’s da stappare sul selciato del Porto Antico, da versare nell’acqua ferma di pesci rovesciati. Vorrei... Vorrei un sogno d’Arizona in cui esistano sogliole volanti con un solo punto di vista, o carpe con un occhio divorato dall’ombra, ma tutto qui si sdoppia e persino le lenti scure dei miei Raiban non servono a schermarmi; troppa luce, limpida di vento. “Un attimo, please: Che Dio crei le nuvole!”
Quasi ora di pranzo per i comuni mortali. Mi arrampico sullo schienale di una panchina e faccio roteare mentalmente una sfera di vetro piena di farfalle. Assurdo? Nel mondo astratto dell’architettura tutto è un gioco equo e sostenibile, puzzle spezzato e ricomposto da L. Nella realtà in cui il telefono squilla all’alba dentro a fili sgualciti di sogno non si può negare nulla. Aspettando la primavera, riempirò la casa di lylium rossi. Macchie ramate sul bianco minimale del mio appartamento vuoto.

Mi ero ritrovata là per caso. Attendevo che loro entrassero nell’ufficio e guardavo fuori. Il mare era diverso, grigio e annoiato, con la consistenza oleosa di un dipinto. La porta si era spalancata e il panorama era scomparso di colpo, totalmente oscurato dai fianchi di Serena. La sua enorme bocca a forma di cuore si muoveva senza faccia: Devi solo venire con noi fino a Manchester. Te la senti, carina? Non mi era chiaro il perché avessero chiamato proprio me, non sapevo nemmeno dove avessero trovato i miei dati...
E poi lui.
Era rimasto in disparte, rannicchiato in un angolo, spettinato e smarrito. Un pigiama azzurro troppo leggero, lo sguardo di paura bianca di chi ha lottato con i fantasmi.
E ha perso.
Certo che ci vengo! Le date del tour erano state decise all’ultimo momento, in gran segreto. Soltanto piccoli club.
(Chris era nella sala bar a bersi una birra).
Lei mi aveva presa per un braccio. Il suo rossetto mi aveva sussurrato: Un pazzo lo ha aggredito e ha ammazzato la madre. Lo vedevo, in fondo alla stanza. C’era chi diceva che fosse morto; forse si era solo rinchiuso per disegnare in pace, ma in fondo le due cose si equivalevano, no? Di sicuro non era più uscito da quel vicolo buio: sempre la stessa scena in loop, come in una bobina difettosa.
Tutto OK, bastava isolarlo dal resto dell’universo, preservare lo spesso strato di bambagia che lo avvolgeva in una rassicurante camera anecoica.
Ma non puoi calcolare al millimetro le mosse delle fan impazzite.
La divisa delle cameriere del hotel aveva un che di porno addosso a quella tizia alta un metro e ottantacinque, una quinta di reggiseno a balconcino che correva squittendo a braccia tese, con propositi peluche-sadomaso. Tette puntiagude da cui avrebbe potuto essere sparato un missile. Il mio compito era quello di proteggerlo, giuro. Anche se il cartellino BODY GUARD attaccato al taschino non mi si addiceva per niente.
Non ci avevo pensato due volte: avevo afferrato lunghi capelli da bambola giapponese, sbattendole la testa contro la parete. Se fosse stato un racconto cyberpunk, a quel punto dalla ferita sarebbero usciti mille cavi scintillanti e non puntini nebulizzati sull’intonaco: biologicamente grumosi, materialmente grigio-scarlatti.
Le mani sulle orecchie, un urlo muto.
Lo avrei abbracciato.
Ma tremava... Tremava come una foglia. E avevo pensato incoerentemente che nel posto in cui sono nata c’è sempre vento e... Silenziosi e veloci. Uomini in unifome sanitario-mormonica avevano portato via la ragazza, sotto sirene intermittenti. (John Smith comes by ambulance) Settimane dopo avevo sentito parlare di prognosi riservata e terapia intensiva. Credo se la sia cavata, alla fine. Chissà come funziona il sistema medico inglese? Beh, comunque quella sembrava il tipo “groupie assicurata contro danni da gang bang”: le mie intemperanze da mamma-tigre dovevano essere parte dei rischi del mestiere.
Ero tornata in Italia senza problemi: solo qualche commento molto poco british sll’aereoporto e qualche ora alla dogana. (Avrei fatto meglio a non mettere gli anfibi e il collare per passare nel metal detector! ) Agenti pallidi e lattiginosi avevano frugato tra la biancheria sporca alla ricerca di qualsiasi sostanza non dichiarata e io mi ero seduta mansuetamente sul tavolino sistema-oggetti, addentando una mela verde-aspro.

mercoledì 10 marzo 2010




Io sono Alice. "A volte provo a credere a sei cose impossibili prima di colazione". Muoio e nasco, precipitando nella tana del Bianconiglio. Sono la bambina che viaggia per avere domande e dare risposte, con una luna Stregatto Burton-Miyazaki striata di ricordi e ricorsi e il Brucaliffo Ulysses che mi guida nel dedalo dell'oracolo. C'è stato un tempo in cui il mio sogno aveva saturi colori gocciolanti e indossavo l'armatura lucente del principe paladino, ma ora voglio solo abiti gotici bellissimi e ritagliati su misura. E cappelli per la DELIRANZA...

lunedì 8 marzo 2010

Festa della Donna. Giornata gialla di bellezza troppo effimera. il gusto amaro di escoriazioni mi arriva fino in gola.
Ascolto Charlotte Gainsbourg e post-o un racconto scritto per chi mi ha amato nonostante tutto



PREHISTORIC VENUS

Faccio la doccia. Mi lavo con cura con sapone al gelsomino. Cerco di raschiare via la sensazione di sporco. Schiarisco lo specchio. Immagine appannata di bianco. Dicono che le somigli, ma non è vero. Mia madre negli ultimi tempi pareva una statuetta della fertilità preistorica: seno lento, antico, di latte e tenerezza decaduta, bacino aperto, fiore diradato. Guardarla mi metteva a disagi. Mi veniva da pensare che ero la causa di tutto, persino dello scorrere implacabile del tempo sui solchi della memoria. Le avevo regalato un accappatoio nuovo e firmato, ma era rimasto piegato in quattro nel cesto di vimini dell’ingresso.
Preferisco mettere quello a quadri. Mi pare di essere in compagnia.
Quello a quadri era degli anni Settanta e la spugna era consumata lungo il collo.
Quello a quadri era di mio padre. Tutto era così in quella casa. Lui se n’era andato senza mai andare via davvero. Restavano tracce ovunque, nascoste e silenziose per concederle piccoli momenti di nostalgia dietro alla corazza concreta dei giorni. una volta alla settimana Daria entrava in bagno, si sciacquava senza entusiasmo con schiume scadenti per poi coccolarsi per ore con creme profumate di mora, vaniglia, cioccolato. Usciva in una nuvola di vapore, con i capelli ancora avvolti in un asciugamano umido. Con quel esotico turbante da Moira Orfei che oscillava pericolosamente senza cadere e senza sciogliersi, accendeva il forno e puliva patate e gamberoni da sistemare nella teglia. Il metallo cotto dall’acido aveva partorito romantici momenti in bianco e nero. Subito dopo il matrimonio erano stati a Venezia. Non in viaggio di nozze, però. Non avrebbero avuto i soldi per una sola notte al Danieli. Erano partiti una mattina di aprile prendendo a casaccio il primo treno in partenza alla stazione. Era stato prima dell’alluvione di Firenze, molto prima che io nascessi.
Una bambina può rafforzare un rapporto. O incrinarlo per sempre. Giorni di ospedale e preghiere ad un dio distratto che mi aveva dato un nome sbagliato. L’amore era rimasto, ma come una tazza fissurata che può spaccarsi ad ogni giro di microonde.
Salvare il salvabile. Vietato piangere.
In primavera passavamo le vacanze tutti e tre insieme. Bordeggiavamo appena sottocosta, le vele spiegate nel vento, scoprendo meravigliose isole su scogli rifugio di gabbiani. Non ricordo molto di quel periodo, solo l’odore di lacca e sale sottocoperta e una lieve tensione nell’aria. Restavo per ore a giocare in una piscina gonfiabile di plastica azzurra mentre la nostra gatta, a prua, spiava i pesci che guizzavano tra le onde. Da qualche parte, in uno scatolone sepolto dai miei mille traslochi, devo avere ancora delle foto, ma preferisco lasciarle là sul fondo del ripostiglio, in alto, dove non si arriva nemmeno arrampicandosi sulla scala.
Amo la musica ma da quando la mamma è sparita, ho nascosto anche i suoi cd e ho cominciato a cambiare casa con una rapidità allarmante. Sempre più in fretta, sempre più lontano, seguita da un corteo di libri e frammenti di vita eppure il paesaggio fuori dalle finestre piombate di un attico
ultra-moderno è lo stesso che vedevo affacciandomi sulle colline della mia città: palazzi, e luci, e strade. Dove sono? Nuvole cariche di pioggia. Le cattive previsioni sono quasi sempre azzeccate. Infilo i Dottor Marten’s verde petrolio, verde lucertola e una gonna di lana scura.
Odio il freddo, gli spilli di acqua gelata che ti inzuppano i guanti fino a farti dolere le dita e come al solito l’autobus è in ritardo. Mi accendo una sigaretta nell’attesa, per confermare quel rito che ti costringe a schiacciare il mozzicone mezzo consumato contro il muro per poi inalare puro catrame tossico, durante la pausa pranzo (“Bisogna fare economia in tempi di crisi” ). Non mi è mai piaciuto fumare. Ho iniziato dopo che al commissariato un poliziotto gentile – occhi verdi e accento del sud – mi ha detto che avrebbero sospeso le ricerche. Il fumo di una Wiston è il mio modo disperato di essere ancora bambina, ancora figlia, ancora divinità.

domenica 7 marzo 2010

"spiegatemi voi dunque, in prosa o in versetti, perchè di cielo ce n'è uno e la Terra è tutta pezzetti"
tra dovere e volere... "VOLVÈRE". Mi piace: ha qualcosa anche del girovagare per poi tornare a casa...

lunedì 1 marzo 2010

OUT OF SONA

IERI, dopo tanto tempo, mi è capitato di parlare con un'amica di un ragazzo che conoscevo. Non sappiamo cosa stia facendo ora, non siamo certe che stia bene... Lo immaginiamo col chiodo anche nel caldo umido di Panamá...



Occhi neri: pozzi di disperazione. Vacillo sull'orlo del precipizio. Deve esserci una ragione per l'angoscia di un pallore innaturale, per la magrezza nervosa delle braccia. Guardo le vene pulsare azzurre e tese sotto la pelle. Unghie sporche e una cantilena inarrestabile, domande senza risposta che si ripetono insensate nella malinconia rassegnata del monologo interiore. Da tempo ha rinunciato all'illusione di un interlocutore paziente. Parla solo per sé stesso, in attesa di un sonno che si trasformi in momentanea quiete.
Perché? Perché?
Troppo facile scavare nel passato per trovare la foto sbiadita di una donna. Carnagione dorata spenta dall'amarezza di lividi scuri che le chiudevano le palpebre. A volte, per uscire, indossava grossi occhiali da sole da diva anni '50 e provava ad immaginare di essere ancora a casa, sulle banchine affollate del canale, ad ammirare le navi che passavano sbuffando come draghi da fiaba.
Con un po' di sforzo rivedeva la curva sottile delle palme, ma Flor non poteva essere al sicuro sulle spiagge di sabbia bianca,e giocava ostinatamente a non pensare ai militari che pattugliavano i vicoli del quartiere. Le avevano detto che non erano soldati, però lei sapeva, sapeva che mancava loro solo una divisa, dato che avevano già pistole calibro .38 , scariche elettriche a 300 volt e una retorica piena di miele che feriva più di qualsiasi arma. Con quella avevano spaccato il paese, inventandosi una nazione commerciale che legittimasse il dominio economico indiscriminato, dopo anni di scempio.
La prigione in cui si era rinchiusa adesso non era poi così diversa e dalla finestra non vedeva altro che il grigiore monotono e anonimo di palazzi squallidamente identici. Si asciugava una lacrima mentre lavava i piatti e sistemava la cucina. Il marito si alzava all'alba per andare al lavoro, e fargli trovare la colazione pronta in tavola e il pranzo in una vaschetta di plastica sigillata era il suo compito quotidiano. Era naturale. Cosa c'era di sbagliato? Eppure bastava un piccolo errore...
Si era di nuovo dimenticato di lasciarle sulla credenza i soldi per la spesa; succedeva sempre più spesso. Ma no, non era cattivo. Almeno dava un'educazione a Miguel: comunque andasse lui aveva bisogno di una figura paterna, qualcuno che lo guidasse dopo la fuga di Rául.

Tutta la famiglia cenava in silenzio davanti al telegiornale delle otto in una liturgia collaudata. Il ragazzino aveva ormai imparato a tacere, concentrandosi sul cibo. Aveva capito che ogni rumore era punito da uno schiaffo che rischiava di spingerlo con la faccia nel piatto. Assistevano muti alla sfilata impietosa di incidenti mortali sulle autostrade nella canicola di luglio, macchie scure che si allargavano sull'asfalto, tra le lamiere, senza filosofia, senza umanità: ...e passiamo alla prossima notizia...
Difficile continuare in quel sopore impotente, accumulando mille microfratture dell'anima; fare qualcosa, qualsiasi cosa, prima di impazzire. Per questo il bambino e la ragazza si erano alzati, in piena notte, muovendosi in punta di piedi nel salotto riordinato con cura, cercando la chiave del casotto in giardino. La porta cigolava sui cardini di metallo. Erano là, allineati in una rastrelliera contro il muro: sei fucili austeri e ben oliati. Li avevano avvolti in un lenzuolo per trascinarli fino al ponte. Difesa sacra della proprietà e inutili, virili battute di caccia erano scomparse per sempre sul fondo fangoso del fiume. Quali sarebbero state le conseguenze? Le prede erano tornate a casa con la calma suicida e orgogliosa dei martiri.
Se fosse stato vero che i giorni hanno il potere misterioso di scorrere uguali in una vita mediocre, non ci sarebbe stata la telefonata fredda e il silenzio perso di sua madre, stavolta perso davvero, quella mattina. Castello di certezze famigliari schiacciato contro un camion. Non rimane più niente...
È stato questo? Rispondi

Un sorso di vino. Addormentarsi sul marmo di uno scalino. Troppa solitudine cancella la speranza.
Dov'erano le persone che dicevano di essere amici? No, era una finzione crudele, molto meglio un oblio artificiale.

Magari se lui avesse aspettato, se avesse resistito ancora un po', avrebbe visto una neonata dai grandi occhi verdi di fiducia illimitata, in un futuro in cui sarebbero restate tracce di un pallido sole. Ma questa è una storia che nessuno ha saputo scrivere.