mercoledì 26 dicembre 2012

ALFRED STEVENS





Alfred Stevens (Bruxelles, 11 maggio 1823 – Parigi, 29 agosto 1906) è stato un pittore belga.


Alfred Émile Stevens nacque a Bruxelles, dove fu iniziato alla pittura da François-Joseph Navez, a sua volta allievo di Jacques-Louis David. Stevens fu soprattutto attivo a Parigi, dove si stabilì nel 1844. Iniziò la sua attività dipingendo quadri sulla vita miserabile delle infime classi sociali parigine, finché un suo quadro ("Ciò che viene chiamato vagabondaggio") attirò l'attenzione di Napoleone III che lo vide in occasione dell'Esposizione universale del 1855. Quell'opera spinse l'Imperatore a rivedere il modo con cui l'esercito arrestava i vagabondi, che andava certamente a beneficio dell'immagine dei soldati, ma non di quella dei vagabondi.
Per un certo tempo i suoi temi storici ed il suo gusto per il kitsch orientalista ne fecero un pittore accademico, ma, a partire dal 1860, Stevens cambiò radicalmente soggetti e raggiunse un enorme successo grazie a quadri di giovani donne vestite all'ultima moda, che posavano in eleganti ambienti interni. Le sue scene di interni borghesi lo avvicinarono alla pittura di Henri Gervex, e venne anche soprannominato il "Gerard Terborch" francese per la sua perizia nel riprodurre i dettagli e le stoffe sontuose.
L'Expo di Parigi del 1867 fu per lui un trionfo, anche perché ricevette per l'occasione la Legion d'Onore. Stevens si trovava a suo agio tanto alla corte di Napoleone III e nell'alta società, quanto negli ambienti artistici e "bohemiens" della capitale. Fu amico intimo di Édouard Manet - al quale presentò il mercante d'arte Paul Durand-Ruel - e della sua cerchia di conoscenze: da Edgar Degas a Berthe Morisot, a Charles Baudelaire. Ebbe anche una certa influenza su James Whistler, col quale condivise la passione per le stampe giapponesi.
Dipinse inoltre delle "marine" e dei paesaggi costieri, in uno stile però assai più libero, si direbbe quasi impressionista, prossimo a quello di Eugène Boudin o di Johan Barthold Jongkind.
Negli ultimi anni il suo stile somigliò molto a quello del suo contemporaneo John Singer Sargent. Nel 1886 Stevens pubblicò anche "Impressions sur la peinture", un libro che ebbe una considerevole diffusione, e nel 1900 fu il primo artista vivente a cui fu dedicata una mostra personale presso la "Scuola di Belle arti" di Parigi.
Smise di dipingere dopo il 1890, per ragioni di salute, e morì a Parigi nel 1906 alla rispettabile età di 83 anni.
I suoi quadri sono stati molto popolari anche in America, dove la potente famiglia Vanderbilt ne acquistò diversi. La maggior parte di queste opere, però, rimase comunque in Francia o in Belgio.



martedì 25 dicembre 2012

MAWARU PENGUIN-XMAS




L’orologio sullo schermo segna già le 5:00 p.m. – “KYUU!” disse il Pinguino Numero Uno, sbriciolandosi in schegge di cristallo lucente.


Accendo una candela al lampone. Una lama anestetizza la tristezza di un’apocalisse mancata – “KYUU!” disse il Pinguino Numero Due. Vorrei che qualcuno mi avesse trovato salvandomi dall’oblio.

Sorseggio un tè caldo e nero nella nera solitudine intermittente delle lampadine sull’albero – “KYUU!” disse la piccola Numero Tre, tricottando la sciarpa rosa del Destino.

Annullo il dolore con il rumore di una compilation poco natalizia. – “KYUU! KYUU!” disse Esmeralda, la numero quattro, preparando una biglia esplosiva per cancellarmi la memoria.



Poi miracolosamente il campanello gira trillando, appena udibile tra le onde distorte «Questa sarebbe una canzone d’amore perfetta!» Meg è sulla soglia illuminata.

È un susseguirsi di baci e abbracci e applausi.

Improvvisamente sono circondata di gente e per un attimo non sento il vuoto. Quel vuoto illegittimo, che aspetta in un angolo pronto a strisciare fuori invadendomi.

Nuovi amici, nuovi visi e discorsi animati; ma non ci sono le facce note, il conforto di sapere che il passato esiste ancora, relegato in un cassetto, e che non ha portato solo sofferenza.

Nemmeno Josh è venuto (nome di risacca e voce di fumo).

Eppure ieri sera mi era parso che indicasse proprio me, mentre cantava le antiche canzoni grunge del nostro paleolitico musicale.

Eppure gli avevo anche ricordato l’appuntamento.

Il mio telefono resta in silenzio. Nessun avviso di messaggio in arrivo.

Lascio che una Wiston Light si consumi a metà nel posacenere e apro la porta per fare gli auguri alla foto di K appesa al battente in versione Santa Claus.

Norman e Momoka stanno salendo le scale in una nuvola di tulle e jabots e riempiono la serata della gioia delle visite inaspettate, fluttuando dagli anime da consigliare alle tesi sull’esistenzialismo. Persino il ragazzo di Megami sembra preso come Socrate nell’agorà ateniese, e si accalora parlando del valore filosofico dei fughi, che diventano velenosi se finiscono sotto zero. Di solito LockE è una persona più schiva ma l’effetto folla dello “ultimo shopping” e qualche bicchierino di grappa, sciolgono la lingua e le inibizioni. È piacevole buttar lì una frase ogni tanto e farsi scorrere addosso le parole, ma gli spettri sono sempre pronti a colpire.

«Ti vedo meglio. Due anni fa eri davvero troppo magra!» “Che significa?” “Ti prego Brandon, fermati qui, non aggiungere altro”. D’accordo forse un po’ di tempo fa non avrei resistito a un party per nove ore consecutive, forse non sarei riuscita a sorridere con la costanza di una Monnalisa cyberpunk, ma non so quanto valgono la libertà e tutto il futuro che mi sono giocata.

«Devi fregartene degli specchi e romperli tutti!» Gabriela mi stringe forte contro il suo petto che profuma di cucina e fiori di stoffa. Poi ricomincia a parlare in portoghese con un bimbetto di undici mesi (l’ospite più giovane che abbia mai avuto) – è una cantilena dolce, pioggia armoniosa sul tetto.



Passo leggera tra i tavoli imbanditi. – “Cosa succederebbe se mangiassi un tramezzino vegetale?” “In fondo non contiene grassi animali …” “Cosa succederebbe se …” . – “KYUU! Mi rivolgo a te che non otterrai mai niente dalla vita” disse la Bambina Anatroccolo travestita da Principessa dei Girasoli, sussurrando nella mia testa.

Avrei desiderato un principe che spezzasse le sbarre della mia gabbia d’argento morto. Se questo fosse stato un mondo perfetto, mi avrebbe scelto infilandomi al dito un gettone di plastica da luna park, e io mi sarei addormentata, innocentemente aggrappata al suo collo e sarei partita con lui su di uno splendente cavallo da giostra, appoggiata alle finiture dorate, al bianco vintage del dorso di legno – monotono dondolio di un organetto francese sulla storia che si sfilaccia in petali cremisi.

Visualizzo la mia bestiolina-guida e scivolo. “KY-UUUUUUUUUUUUUUUUUUU!”



Mi scuoto e sono sempre davanti a un buffet estraneo. Azzardo una piroetta visuale per individuare Cassy, persa in un crocchio di donne armate di spumante e convenevoli.

Anch’io adesso sono capace d’indossare una corazza e di calarmi nel ruolo della padrona di casa. Volteggio e afferro il capo di una conversazione sciolta. Posso addirittura pensare che sto bene. E, in effetti, sto bene perché ogni gesto d’attenzione chiude un buco dell’anima, ma qualcosa si strappa in profondità e lascia vedere un oceano oleoso di errori.

“I Love You All”

domenica 9 dicembre 2012

THE GRINCH FROM OUTER SPACE


C’è qualcosa che non va in questo nostro “Rispettare la Tradizione”, perché mi accorgo subito che l’atmosfera è diversa, pesante, malata.

Facendo finta di niente – Sissignore, come se fosse tutto normale – sistemo le decorazioni sull’albero – è un albero finto, di plastica verde, spruzzato di deodorante boschivo, per sembrare più naturale: da anni abbiamo rifiutato la pratica barbara di lasciar morire un vero abete confinandolo in un vaso (aculei secchi che coprivano il pavimento, simili a preghiere inascoltate).

Prima le palline più grandi – al centro e sui lati (le due bianche con la corona di peluche quasi simmetriche, una a destra l’altra a sinistra) ; poi quelle di vetro trasparente, con il filo lungo, da mettere verso il fondo; quindi le più piccole – sulla cima un po’ depressa, abbattuta.

Dove i rami artificiali pendono sul presepe, creo un cielo di stelle e angeli svolazzanti, cercando un equilibrio ideale tra rosso, dorato e argento.

«No, non lì!» la mia voce è appena troppo stridula «Non vedi che non va bene, così?» Cassy prova a piazzare un globo colorato in mezzo alle mie schiere celesti. «No, non vedo. Sto facendo uno sforzo per stare in piedi, ok?»

Il silenzio della consapevolezza esplicita cade sulla colonna sonora natalizia che romba dalle casse cinesi del computer. Fino all’anno scorso ci saremmo divertite insieme, io a cantare e lei a fare i coretti.

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci» …

La ripetizione azzera una frase e la riscrive sullo schermo bianco della memoria.

Serro le labbra e la ignoro.

I tentativi di spensieratezza si sbriciolano mentre giro la chiavetta di un carillon e Silent Night si mescola a Enter Sandman.

Il rito non è compiuto finché non appendo sulla cima l’ultima decorazione, la più povera e tenera. I vari puntali non hanno resistito – ossidati dal tempo, corrosi dalla neve artificiale che usavamo prima del cotone – ma quella minuscola sfera coperta di tessuto giallo ha attraversato la furia sottile dei Natali Passati e si è guadagnata il diritto di segnare il momento, come una bandierina sulla linea del via.

«Mi sento male. Ho la nausea»

«Ok, vai a sederti di là. Ti preparo qualcosa di caldo. Qui finisco io dopo»

L’incantesimo si è spezzato, ma provo lo stesso a recuperare un tono conviviale «Beh, è una bella compilation per la festa di domenica, no?»

(…) Esita «Non è un po’ troppo rumorosa?» L’illusione che Cassy possa davvero tornare si frantuma come uno specchio lanciato per terra: la donna che mi sta davanti, con la schiena poggiata su una pila di cuscini, è innegabilmente D e ha una smorfia amara e un colorito giallognolo che la fa somigliare più al Grinch che a Babbo Natale («Oh-Oh-Oh, Merry Christmas!»).

Mi alzo, per nascondere un tremito che minaccia di diventare pianto.

Accendo la stufa.

Da un po’, da quando il termometro ha cominciato a calare, lei dice di aver freddo e s’intabarra con scialli e coperte.

La osservo sgretolarsi lontano dalla portata delle mie mani gelate e aggiungo il poncho cileno sul piumino, sopra il pigiama di pile, per non dover attaccare il riscaldamento anche nella mia stanza. D’altronde, che altro potrei fare io per ridurre i costi? Il fantasma della Crisi ha aggravato le mie paranoie economiche e adesso mi ritrovo a vivere in continuo scontro tra risparmio e perfezionismo.

Sarà difficile sopravvivere all’inverno. Ammesso che il 21 dicembre il meteorite dei maya non risolva il problema alla radice con la forza cosmica del Giudizio Universale.

Se il Mondo intero non scompare in un cratere, appenderò alla porta di casa un cartello con scritto Survivors – Ad Art Attack, hanno spiegato come tagliare un pezzo di cartone in modo che sembri un’asse scampata al naufragio.

Immagino che già il 20 inizierà una pioggia di messaggini e mail, un rincorrersi affannoso di previsioni mentre gli americani si trincereranno dentro i loro bunker nel giardino di casa. Alla tv, i talk show avranno un display su cui scorre il conto alla rovescia (Meno 9… 8… 7…)

Il 22 ci sveglieremo cambiati: evaporati, trasformati in scarafaggi o in fito-umanoidi mazoniane. O magari con le orecchie a punta e testa oblunga.

Gli orologi si fermeranno e poi riprenderanno il loro ciclo.



Stringo la tazza bollente. Butto giù un sorso di mate rovistando mentalmente tra i possibili argomenti di conversazione, ma le parole hanno perso smalto e riecheggiano vacue, rimbalzando.

Meglio abbandonare qualsiasi accenno e posizionare ancora qualche statuina sullo scenario fisso dei monti di cartapesta. C’è un contadino con delle galline più grosse di lui, quattro re magi con dromedario ed elefante, un Totoro col suo flauto di pan, e una pecora decapitata: vanno tutti verso una sacra famigliola messicana.

A Giuseppe – José per gli amici – manca mezzo cranio. Lo spazio dietro agli occhi è vuoto e riflette il luccichio blu di un foglio stellato.

giovedì 29 novembre 2012

PIET MONDRIAN "Albero grigio" e altre evoluzioni



L’approccio iniziale della  carriera pittorica di PIET MONDRIAN segue la corrente impressionista, molto in auge alla fine del 1800, volgendo poi verso il luminismo – la versione olandese del fauvismo. Questo approccio consente a Mondrian di svincolare il colore dai suoi riferimenti naturali, incentrando la ricerca pittorica sui componenti fondamentali: forma, linea e colore.



I primi quadri mostrano i mulini, i canali, i fari, le dune, i campanili e le chiese che il pittore incontra dipingendo en plein air. Sono i suoi soggetti preferiti perché, come da lui scritto, desidera entrare in contatto con la natura e con l’essenza delle cose.

Tra il 1910 ed il 1911 dipinge il trittico “Evoluzione” che rappresenta la sua adesione alla dottrina teosofica. Il colore è molto importante, in quanto il blu rappresenta la parte spirituale. Mondrian, però, non sarà mai soddisfatto di questo trittico che avrebbe potuto “sviluppare in maniera differente”. Nel quadro si legge prima la figura di sinistra poi quella di destra ed infine quella centrale nella quale gli occhi aperti e una maggiore intensità luminosa indicano la raggiunta visione di una verità superiore.

Ora il disegno inizia a semplificarsi. Fondamentale per lo sviluppo di Mondrian è la serie degli “Alberi”, interpretato in vari quadri tra il 1908 ed il ’12. L’albero da sempre rappresenta l’evoluzione della parte terrena che cerca di spingersi verso lo spirituale – i rami che puntano al cielo. Nel dipinto “Albero rosso” si ha una prima evoluzione stilistica. Il tronco è ben definito mentre i rami cominciano ad essere sintetizzati in forme più semplici. I colori iniziano e diventare importanti, riducendosi a due colori primari: il blu ed il rosso. Nel quadro seguente “Albero grigio” la forma è sempre riconoscibile e si stacca ancora dal fondo, che nel frattempo è diventato una superficie piatta. Nella successiva evoluzione verso l’astrazione abbiamo il “Melo in fiore” dove l’artista mostra solamente delle forme geometriche: i piani e le sembianze iniziano a scomparire, trasformandosi in linee curve, con colori dai toni modulati.

Da questi quadri Mondrian inizia il percorso verso la geometrizzazione, slegandosi dai principi del cubismo, col quale era entrato in contatto prima in Olanda ed in seguito a Parigi, dove si trasferì per dipingere.

L’artista inizia la sua ultima fase dell’evoluzione sempre ispirato dalla dottrina teosofica, che ha come finalità l’armonia tra interiorità ed il mondo esterno. Procede con l’eliminazione degli elementi ritenuti superflui, alla ricerca della Bellezza che intende rappresentare in una forma ancora più concreta di quella presente in natura. Le linee sono rette, semplici. Alcune attraversano completamente il quadro, per delimitare meglio lo spazio, altre sono brevi, a suddividere la tela. Le linee nere hanno diversi spessori, le campiture di grigio e dei colori primari (rosso, giallo e blu) sono stesi con una attenta varietà di pennellate orizzontali e verticali. I quadrati di colore, inizialmente posizionati in centro, si spostano verso i bordi del quadro, per focalizzare maggiormente l’attenzione sulla composizione, basata solamente sulla sua intuizione. Nei lavori incompiuti presenti nella mostra si notano le linee a carboncino disegnate da Mondrian e utilizzate per raggiungere l’armonia compositiva. La separazione tra emozione e ragione non esiste più. Mondrian ha terminato il suo percorso. Nella mostra sono presenti anche tre modelli dei suoi atelier, dove si nota anche in quel caso un’evoluzione fino a giungere alla purezza di linee dello studio di New York, che ritroveremo successivamente nei lavori dei maggiori architetti e designer del Ventesimo secolo.



LE RANDEAU DE LA MÉDUSE



Dopo la pioggia, il cielo è slavato e bianco, indifferente come un occhio cieco. La perturbazione Medusa ha lasciato un sole malato.

Pietrificati e sospesi n una bolla di Tempo, corriamo verso il naufragio aspettando la Fine del Mondo su una zattera affollata di cannibali. Riempiamo le strade di lucine natalizie un po’ più fiacche e tristi.



I colori nelle vetrine mi attirano e mi respingono: “Con quel vaporoso golfino chiaro assomiglierei a Hide-sama” Sì certo, se fossi un maschio nipponico piuttosto figo …

Cerco strategie per comprare i regali di rito senza dover accendere un mutuo, passo tra gli scaffali, mi faccio tentare da un libro. È nuovo.

Profuma d’inchiostro fresco di stampa.

Semaforo verde alla cassa 6 /Semaforo rosso alla cassa 2.



Impossibile non pensare all’impeccabile impiegata giapponese che al Consolato scandiva con precisione meccanica i numeri di clienti e sportelli come se annunciasse la tombola.

Allora era tutto più semplice perché ero davvero sola con Me Stessa.

Allora era tutto più difficile perché ero davvero sola con Me Stessa.

Mi guardo intorno.

Appena uscita dal negozio, dovrò correre in bagno.

Quattro porte e l’insegna di McDonald’s lampeggia carica di energia calorica.

Scendo le scale a precipizio verso il traguardo segnato da una donnina stilizzata sulla porta di simil-legno a spinta. Non tolgo nemmeno l’auricolare. Che effetto fa liberarsi con il Duca Bianco che ti canta nell’orecchio? “Ashes to ashes / Funk to Funky … “.

Nel Paese dei Crisantemi, il cinguettio degli uccellini si attiva quando ti siedi sulla tazza e un pannello illustrato ti spiega cortesemente come usare tutti i possibili confort idroriscaldanti. Una strana interpretazione della purezza spinge a nascondere la verità del corpo, un’eleganza aristocratica che mi fa tornare in mente i giardini solitari del Palazzo Imperiale: una cortigiana che scrive con il pennello, una madre che stringe il fazzoletto nel pugno per non mostrare le lacrime, un intellettuale che sistema un mazzo di gigli in un vaso …

La finzione contenuta cancella i sentimenti e le loro ragioni profonde e, per cercare le radici, alcuni si perdono nei paradisi artificiali gestiti dagli psicoterapeuti, trasformandosi in caricature bovine dell’essere umano.



Io mi sono divincolata dalle capsule di monitoraggio e osservo la realtà muovendo lo sguardo verso l’interno buio della coscienza, analizzando il movente d’inattese reazioni chimiche.

Perché la foto di Norman e Momoka – così innegabilmente INSIEME – mi ha turbato?

Per me, la gentilezza dell’amicizia è l’apice di un rapporto, dopodiché – questa volta sì – si apre uno sconosciuto empireo abissale d’impurità non necessarie, talmente indesiderabili da apparire lontane anni luce, come l’ipotesi della riproduzione aliena.

Norman e Momoka.

Adesso è lampante: le stesse passioni, la stessa pettinatura da manga, gli stessi vestiti presi a Harajuku … Eppure c’è qualcosa che mi sfugge …

martedì 27 novembre 2012

ANDREA SI è PERSO o LA BANALITÀ DEL MALE

25 NOVEMBRE.


Giornata contro la violenza sulle donne.

Ascolto un professore di sociologia delle migrazioni spiegare che la discriminazione di genere è stato il tassello fondante della gerarchia sociale patriarcale e capitalista, e mi domando quale valore possano avere ventiquattro ore con un fiocchetto ufficiale sopra a fronte dei dati sempre più allarmanti che ci giungono non solo da Paesi lontani, quasi inimmaginabili, ma persino dalla nostra Italia. Il 70% delle donne uccise avevano denunciato qualche forma di abuso, spesso da parte del compagno o ex-compagno. E ci sono notizie ancora più tremende che confermano la terribile logica del branco, la necessità famelica dell’essere umano di cercare un anello debole, un capro espiatorio da colpire per non sentirsi troppo fragile. Facendo le debite proporzioni, è la teoria della Banalità del Male di Hannah Arendt: assimilare il “diverso” al rango di “bestia” per giustificare la propria crudeltà. Gli indios delle Americhe non avevano un’anima; i neri non avevano un’anima; le donne erano prive d’intelletto: non c’era nulla di sbagliato nei massacri in nome della civilizzazione, nelle punizioni corporali estreme o nella rivendicazione di un possesso oggettivo. E non si tratta di un capitolo chiuso della Storia: i campi di rieducazione nella Cambogia di Pol Pot e quelli dell’attuale regime cinese, il caporalato nel nostro sud, le operazioni di guerra a Gaza e in Siria …

E poi ci sono tante micro-storie, di quelle che occupano un trafiletto sul giornale per un giorno e poi spariscono nel dimenticatoio: il suicidio di Andrea,quindicenne romano che non tollerava più le continue prese in giro e il bullismo dei compagni di scuola. Siamo tutti indignati. Per un momento. Dopodiché scattano i retro-pensieri stereotipati: “Ah beh! Andava in giro con i jeans rosa e lo smalto sulle unghie! Era un gay!” – come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da giustificare. Persino i quotidiani danno tutto per scontato e la morte di un ragazzo così giovane s’inscrive nel registro dei fatti annunciati e quasi naturali. Ciò su cui bisognerebbe davvero riflettere è l’atteggiamento fuorviante dell’informazione e addirittura della Procura – che indaga senza ipotesi di reato ed è restia ad aggiungere l’istigazione ai capi d’imputazione. Se non proprio “istigazione”, si potrebbe allora chiamare “diffamazione aggravata” (visto il tragico risultato). Come finirà? Con una semplice diffida? Non è la prima volta che un giovane si toglie la vita per disperazione dopo essere stato pesantemente deriso (e purtroppo non sarà l’ultima!) ma chi se ne ricorderà? Chi si ricorderà i nomi delle mogli, fidanzate e madri vessate dagli uomini della loro stessa famiglia? Chi parla più dei femminicidi messicani, la cui lista si allunga sempre di più mentre il governo copre i potenti colpevoli?

Non sono episodi sporadici di barbarie contro civiltà: in Tunisia a ottobre è stata stuprata dai poliziotti e poi accusata d’indecenza, e anche in Italia – che per anni ha guardato con perverso divertimento e pure con segreto compiacimento al fenomeno bunga.bunga / burlesque, e che rifiuta di riconoscere la regolarità delle unioni omosessuali – ci sono state vicende analoghe che non hanno lasciato strascichi e si sono spente nel nulla. È facile allora dire che si deve lavorare per cambiare la mentalità, ma nella pratica sembrerebbe quasi impossibile, dato che si dovrebbero sovvertire le logiche dominanti di un intero sistema corrotto fin dalle fondamenta.

Non bastano le parole se poi nei libri di testo i nomi di pittrici, scrittrici, politiche, eccetera si contano sulle dita di una mano; e soprattutto se i media in generale e la pubblicità in particolare continuano a proporre un’immagine distorta che declina e perpetra i vecchi schemi della cultura machista. Schemi che, attraverso questo costante stillicidio si riproducono, radicandosi nelle menti delle persone comuni: “Se sei un maschio medio, puoi fare quello che ti pare”. A lungo termine questo è un’autodistruzione collettiva, perché è provato che le donne rappresentano un’importante risorsa d’innovazione in campo culturale, economico e lavorativo.

Qual è la ricetta per arginare di questo disastro?

giovedì 22 novembre 2012

WALKING IN MY SHOES

È confortante uscire in pigiama per andare al mercato, indossando sopra la maglia di flanella il piumino a orsetto che mi ha regalato Altair in quell’ultimo Natale silenzioso.


Ricordo l’atmosfera tesa e strana, e la speciale tenere innaturale che nasce tra due persone che, per non ammettere i propri sbagli, si parlano rivolgendo brevi monosillabi al frigorifero. Adesso non saprei dire come è iniziata la resistenza cocciuta del mutismo, o meglio, non so se valeva davvero la pena di difendere uno stupido baluardo ideologico. «Se è così che vuoi condurre la cosa, perché non ti suicidi subito?» Già, “Continua a passare per le finestre aperte” disse uno scrittore in un hotel del New Hampshire.

«Se tu fossi nata con qualche problema, avrei chiesto di staccare le macchine». A sentirlo, avevo pensato che fosse crudele, ma forse era solo dannatamente realista- Non potevo tollerare che la mia trasparenza da diafana Principessa passasse così inosservata, così fraintesa da sembrare pazzia. “Cosa vuoi da me? Che mi alzi e faccia una giravolta, e poi la faccia un’altra volta?”.

Dopo la riverenza, forse ero arrivata alla fase della penitenza e lui, con quella sua preoccupazione mascherata goffamente da cinismo, credeva che fosse meglio essere odioso e lasciare tutto sulle spalle curve di Cassy piuttosto che guardarmi negli occhi e starmi a sentire.



E allora non vedo nulla di sbagliato nella mia piccola trasandatezza e non mi cambio per uscire a comprare frutta e verdura. E margherite viola per mio padre – anche se in realtà vorrei dei crisantemi giapponesi, gonfi e aperti come damigelle aristocratiche nelle stanze proibite dello Shôgun – e lilium amaranto per K.

Anche lui andava in giro in pigiama, semplicemente per stare più comodo. A chi gli domandava perché fosse sempre imbronciato, rispondeva «Sono sveglio: non è sufficiente?»



Mi fermo dai casalinghi a prendere un pelapatate per sbucciare le fuji che mi servono per sopravvivere: un modo gentile e preciso per strappare la pelle sottile e mettere a nudo la polpa bianca – Ogni analogia con il mio sistematico metodo del dolore fisico è puramente casuale ma estremamente suggestivo.

Come un dio della morte con una mela rossa nelle mani grigie, penso di poter continuare in un assurdo regime di frutti succosi, zucchine, yogurt e poco altro …

Se a tutto questo aggiungete un po’ di curry, avrete la ricetta dell’amore!

Se conoscessi il nome e il volto di quelli che mi hanno fatto del male, li ucciderei in quaranta secondi scrivendo sul mio nero quaderno!



Rievocando la cucina (i suoi odori e le sue implicazioni affettive), guardo l’ora sul cellulare e stringo i pugni contro i manici di plastica dei sacchetti: è tardi ma Cassy non sarà ancora rientrata. Non vale la pena di affrettarsi, però devo ancora fare la doccia e selezionare, nella cascata vomitata dagli armadi, i vestiti da mettere per il lavoro.

Le vetrine del centro sono una sfilata di tentazioni e mi sono ritrovata a fare mille foto a oggetti del desiderio che si allontanano sempre di più man mano che mi ripeto che è meglio aspettare i saldi. Persino un paio di scarpe da donna è comparso in questa galleria di cartamodelli virtuali. La zeppa alta e il colore impossibile mi hanno fatto venire in mente Sylvia: sarebbero perfette per lei mentre probabilmente io sembrerei ridicola e traballante su quelle zattere senza un approdo.



mercoledì 21 novembre 2012

BARBARA CANEPA E ANNA MERLI



Barbara Canepa si è trasferita in Francia in cerca di maggiori possibilità espressive e oggi gestisce una propria collana editoriale con la quale pubblica i suoi lavori – concedendosi tempi di elaborazione piuttosto dilatati – e sostiene altri giovani autori. La crescita personale di un artista sta nell’evoluzione individuale e si alimenta del rapporto con il prossimo e dell’attitudine mentale a curare ogni segmento della creazione lasciandosi influenzare da tutti i possibili stimoli: nel caso di End, si ritrovano molti La realizzazione di una singola tavola può durare cinque giorni o anche di più e può soffermarsi su una sola vignetta per un giorno intero perché spesso la creazione viene scomposta in ben centottanta livelli di analisi: un approccio radicalmente diverso rispetto a quello quasi industriale del fumetto giapponese, che si concentra sulla quantità prediligendo i piccolo formato e il bianco e nero. Le immagini di Barbara Canepa vengono rielaborate su due binari paralleli, sia in analogico che in digitale anche se promette di tornare all’uso tradizionale del colore per il prossimo volume di Skydoll, previsto per il 2014 (il terzo capitolo è completamente colorato a computer). Il processo di correzione e perfezionamento su End è stato lungo e meticoloso, studiato a quattro mani con la collega Anna Merli tornando a ripensare la base manuale della grafica, riscoprendo le matite e i toni scuri tipici delle illustrazioni vittoriane, con un monocromo cupo che dà l’impressione di antico, legato al tempo gotico e al concetto di morte e un’atmosfera molto diversa da quella pop e luminosa di Skydoll. Uno sguardo rivolto al passato non significa dimenticare il presente: per comunicare con le nuove generazioni è necessario mettere nella narrazione aspetti di moda e di design restando al passo coi tempi e addirittura anticipandoli. Anna Merli disegna ma i compiti in realtà non sono suddivisi in maniera rigida. In particolare, Barbara si occupa dello storyboard e lo invia ad Anna che fa i primi schizzi e le due si consultano sul tipo di scenografia da allestire: spesso le autrici utilizzano l’espediente della quinta teatrale, rappresentata da un tronco o da una tomba scura o sfumata, come se l’occhio fosse una camera che cambia continuamente posizione. → Lorenzo Mattotti e D’Alò hanno sfruttato lo stesso trucco per il loro Pinocchio, recuperando l’idea del palco da opera. Da qui nasce l’ispirazione per un intreccio che serve soprattutto a parlare di se stesse e della condizione femminile, arrivando a toccare la sensibilità di un pubblico di lettrici fragili.

La prima fase prevede dei semplici acquarelli: si tratta di una tecnica pittorica che di per sé comporta la sovrapposizione di tanti strati per creare una texture particolare su uno speciale supporto di “carta-cotone”. In seguito Canepa aggiunge o corregge i dettagli con Fotoshop e passa alla scansione riassegnando i giusti valori a ciascuna sfumatura, in modo che non sia alterata sulla pagina: in questo passaggio, lavorando in quadricromia, è possibile cambiare totalmente l’impostazione di una tavola, trasformando per esempio tutti i rossi in blu.

Inizialmente le artiste si erano concentrate quasi esclusivamente sulla ricchezza visiva, dimenticandosi persino di inserire i balloon e stanno quindi pensando di curare un’edizione di end senza testi, con un foglio trasparente sovrapponibile alle illustrazioni a grandezza originale.

martedì 20 novembre 2012

COLD IS AN ANIMAL

Il freddo è un animale difficile da sconfiggere. Da un giorno all’altro la stessa gente che fino a ieri girava in maniche di camicia prenderà d’assalto i negozi cinesi in cerca di stufette elettriche e trapunte termiche. Necessità che nascono improvvise ogni anno, in congruamente inaspettate.


Cammino tenendo i pugni chiusi sotto il collo ampio del maglione. Stingo le spalle. Il segreto, forse, è mantenere in circolo il calore prodotto dal movimento. Se mi fermo, il vento mi taglia le orecchie sotto la lana morbida del cappello.

Ci sono anche angoli inondati di sole quasi tiepido, come la piazza, brillante per luce polverizzata dell’acqua che ricade convergendo nella vasca, o il marciapiede della farmacia, dove finisce il budello tortuoso del borgo. Messaggi che lampeggiano di verde / blu / verde-verde: OMOGENEIZZATI IN OFFERTA – MISURATORE DI PRESSIONE A 29.90… Segue l’ora che segna il ritmo dei passi. Ho i miei punti di riferimento sparsi sul percorso: l’orologio della stazione (ci vogliono quaranta minuti), il display attaccato sulla facciata vicino alla tabaccheria (ancora venti minuti). Mi affretto, il respiro diventa quasi affanno di fiato concentrato. Una campana, da qualche parte batte sette rintocchi e mezzo e diventa indispensabile arrivare a casa presto.



Presto (Riverbero della mia anima che già al primo eco ha il sapore della ripetizione).

Per preparare le recensioni di questo mese mi sono data una regola che ottimizza i tempi: tutte le andate ruggiscono nel motore un po’ vintage di un Seattle Sond nostalgico e tutti i ritorni sono ovattati di testi islandesi piacevolmente bright pop.



Avrei voluto entrare un attimo da Tiger, con quel suo confortante odore di grande magazzino scandinavo e la sua lieta atmosfera precocemente natalizia. Devo iniziare a cercare dei regali (piccole cose, gadget, decorazioni di ceramica e angioletti con i capelli di paglia e le ali di stoffa).

Chissà se le vie di Copenhagen sono piene dello stesso profumo di fiaba organizzata? Lo chiederò a Chris nella prossima mail.

Da quando si è trasferito ci scriviamo spesso.

Se sei circondato da un perenne biancore o da una perenne tenebra, ti abitui a dormire quando hai sonno, senza guardare il colore del cielo. Ti abitui a convivere con i Mumin – mansuete creature ippo-Troll – nascosti nei boschi di conifere subito oltre il confine di candide città da cartolina. O almeno, io immagino che sia così. Ma penso anche alle micro-punture della neve che ti gela le mani e il naso, e alla follia di andare in bicicletta con dieci gradi sotto zero.

La mia è una mite città di mare, però non è facile restare in equilibrio sul ponte, dove il vento soffia mordendo i sassi del torrente e i gabbiani risalgono lungo il greto con le loro urla stridule e nessun gatto alato a far loro compagnia – tento di seguire per gioco la linea retta dell’ombra del parapetto sul marciapiede ma sono spinta con forza in là, verso le macchine in coda come bestie incolonnate nella steppa.

Nei pressi dello stadio si ammassano i tifosi e i poliziotti all’ingresso della partita. È facile ritrovarsi presi tra le due fazioni, con un vago senso d’inquietudine, come se fluttuasse il sentore di un incidente imminente.

Non ho mai capito come si possa coscientemente desiderare di restare per novanta minuti buoni esposti alle intemperie solo per vedere (da lontano) dei tizi che corrono dietro a un pallone. Parlando antropologicamente, è una rappresentazione ludica dello scontro fra clan, ma trovo più esteticamente poetica la potenza  degli All Blacks, che Una Volta Erano Guerrrieri e ora sono fluidi giocatori del terzo tempo.

Non ho problemi ad attraversare l’alienamento alogeno del tunnel che va dal centro alla mia strana prima periferia, eppure ferma tra un drappello di ultrà e una camionetta delle Forze del Disordine, non so bene di chi avere più paura: da un lato gridano invettive contro l’altra squadra – che forse vincerà o forse no, poco importa – dall’altro un gruppetto di omini Playmobil sta in posa in attesa dei colleghi – una mano sul pacco, una mano sul mitra, un occasionale controllata al tonfa lungo e minacciosamente fallico.

Il semaforo diventa verde, conto le strisce sull’asfalto come le righe di una partitura da imparare a memoria e divento un punto, una nota gregoriana che vibra e si spegne, una fiammella smorzata.

E distinguo già il mio quartiere: la sobria eleganza dei palazzi, la falsa allegria dell’insegna floreale del supermercato con la fila di taxi addormentati.

lunedì 19 novembre 2012

CHANGES The smell of a Little Mermaid

Camminando si notano i sottili cambiamenti della stagione che scivola via: gli abiti pesanti che prendono il posto di quelli leggeri nelle vetrine e la vite americana, che fino a ieri era coperta di rosso dorato, oggi è un insieme sfilacciato e spettrale di tendini vegetali fitti e scuri.


E intanto gli operai – tutti senza casco di protezione – hanno finalmente aperto un varco che passa vicinissimo all’ingresso di una futura stazione della metropolitana. La promessa di quell’utopia tangibile dà un nuovo profumo all’aria di novembre, come il primo regalo di Natale, già incartato con un bel fiocco scarlatto.

Peccato che tra poco sarà quasi impossibile continuare a spostarsi a piedi. Nonostante le temperature miti l’inverno se ne sta acquattato da qualche parte aspettando di sorprenderci alle spalle, scoperti e vestiti di cotone. Per adesso, comunque, non mi dispiace affrontare la strada lucida di una pioggia che non si è vista, pronosticata soltanto dai cartelloni allarmistici della protezione civile. Non apro nemmeno l’ombrello per evitare le timide gocce che cadono a sprazzi, senza vento. Questo non si può chiamare temporale.

Forse il Boss mi riporterà a casa in macchina – vago disagio dentro un bozzolo di radica manageriale, domande che cadono nel buio dei container del porto, a metà tra la curiosità e l’interesse semi-professionale di un uomo che, con uno scarto impercettibile tra le due cose, è passato dalla scienza all’arte. Il passaggio mi farà risparmiare una mezzora sulla mia tabella di marcia fin troppo serrata, e stempererà la convinzione spiacevole di non essere riuscita a concludere niente.



Venerdì sono arrivata a casa in tempo per leggere qualche pagina prima di cena. Sdraiata su un fianco, con il viso a pochi centimetri dalle dita, sentivo l’odore metallico del mio anellino in finto-argento e scorrevo distrattamente le righe mentre il mio cervello elaborava la remota possibilità di addormentarsi in un orario non convenzionale. Avevo voglia di spegnere la luce che mi feriva gli occhi come una lampada da interrogatorio a basso costo. Non volevo pensare più a nulla per una ventina di minuti, mentre il tanto atteso temporale si trasformava in puro fragore contro il vetro della finestra e l’acqua cominciava già a filtrare pigramente sul pavimento del salotto impregnando di “cane-bagnato” il tappeto incastrato sotto il divano – impiegherà giorni ad asciugare, spandendo un lezzo di muffa in tutte le stanze: dovevo ricordare di aprire le imposte appena fossero ricomparsi il sole e l’azzurro.



Bizzarro come le recenti pazzie metereologi che dello scioglimento globale mascherino, in un secondo, la catastrofe con irragionevoli tepori primaverili!



La sveglia sarebbe suonata alle 21.54 per ricordarmi di lavarmi e mettermi il pigiama, per poi preparare tutto il necessario sul tavolino del soggiorno e mangiare di fronte al computer. Mi piace la sensazione di pulito del passarsi la spugna bagnata sul corpo e spruzzare il deodorante sulla pelle umida: Nivea Pearl & Beauty.

«… Che poi che gusto dovrebbero avere le perle?» Il tono di Sylvia era stato ironico, in un lontano giorno di primavera «Al limite sapranno di pesce, no?»

«O di sirena»

Ripenso al passato cercando nello specchio i contorni bluastri di un’ecchimosi spontanea, marchio sanguigno della mia pretesa di nobiltà. Una volta erano più frequenti, in una scala di gradazioni dal verde al nero e ritorno, ma stasera non se ne trovano sull’incerta pienezza di forme che non voglio riconoscere. Non devo giustificare qualche violenza con strane ascendenze da una stirpe acquatica, nessuna sorellina-anemone può riempire il vuoto iperbarico del mio respiro monocorde.

È meglio non riflettere e rifugiarsi nel conforto del sapone idratante, nella famigliarità delle lenzuola disfatte che ormai hanno assunto la piega delle mie curve inesistenti (o troppo evidenti?). Emozioni private accompagnate dal battito del mio cuore di giada – lento e irretito da laccetti di cuoio brunito: a volte desidero che qualcuno entri di soppiatto, volando sulla confusione di roba sparsa per terra, e mi carezzi la testa. Il lunedì, il corpo di Cassy conserva ancora una nota dolce di crema al torroncino, diversa eppure così simile al bouquet di mandorle amare che nasce dai ricci di Ortensia, ogni volta che lei si avvicina per salutarmi sulle scale, all’imbrunire.

http://youtu.be/xMQ0Ryy01yE

martedì 13 novembre 2012

TOKIDOKI














Simone Legno, in arte Tokidoki è il creatore di uno dei brand più apprezzati degli ultimi anni ed è entrato di diritto nell’empireo della cosiddetta “arte colta” sotto l’etichetta generica di “Pop Surrealism” o “Pervasive Art”, che ha tra i suoi capofila nomi come Gary Baseman e Ray Ceaser, ed è sbarcato alla Peggy Guggenheim Foundation di Venezia, che gli ha commissionato una mascotte carina per il museo. I personaggini firmati Tokidoki sono rassicuranti e conosciuti in tutto il mondo e persino in Giappone, patria spirituale di Simone, tanto che la Yamaha lo ha invitato a seguire Valentino Rossi nei giorni del Gran Premio. Le forme tondeggianti piacciono a un pubblico davvero eterogeneo, che va dai bambini ai pugili, e anche le celebrità hanno le hanno apprezzate, accostandosi spontaneamente al marchio e facendo poi nascere una collaborazione per le diverse linee di merchandising di gruppi musicali, attori e calciatori famosi (anche se sono sorte delle controversie legali con grandi aziende che hanno utilizzato le immagini senza licenza). L’avventura è cominciata sul web nel 2002, grazie a un sito nel quale il designer si metteva completamente in gioco (da qui il suo nickname, che significa “Qualche volta”, perché “qualche volta è possibile emergere”). E il sogno diventa realtà: in due anni il blog interattivo, che utilizzava un sistema innovativo di animazione, registra 17mila contatti al giorno. Questa notorietà virtuale apre la strada al passo successivo, cioè creare una società strutturata con due partner americani e partire per Los Angeles, dove si è inserito in una rete di conoscenze ramificate. In Italia ritrova volentieri le proprie radici, ma spiega che è troppo difficile affermarsi, per colpa della burocrazia, dei circuiti di raccomandazione e della scarsa considerazione istituzionale per i prodotti culturali: un periodo di formazione all’estero (negli U.S.A. o nel Sol Levante, dove vige il principio di meritocrazia) è necessario per la crescita artistica e intellettuale.

Ispirandosi al kawaii nipponico, Tokidoki cerca di sviluppare un proprio linguaggio originale, disegnando soggetti con una personalità e una storia: alcuni vengono continuamente rilanciati e reinventati, altri sono stati abbandonati nel corso del tempo. l’attitudine di questo ragazzo romano, si discosta sia dalla visione disneyana sia dalle procedure seriali del superflat: se Takeshi Murakami lavora con un numero limitato di vettori riproducibili e con uno staff di assistenti. Legno vuole ancora controllare ogni momento della creazione per imprimere un aspetto personale a ciascun nuovo character e ne cura l’estetica, con l’aiuto tecnico di un team. Nonostante questo sforzo per creare un universo coerente, raramente questi esserini lasciano l’universo del chara per evolversi in qualcosa di più complesso: esistono delle animazioni a livello sperimentale ma si tratta di operazioni minime e marginali perché, secondo Simone, dando movimento e soprattutto voce alle immagini, si rischia di rovinarne la magia, com’è avvenuto ad esempio con Hello Kitty. E anche il fumetto, pur restando bidimensionale, non renderebbe giustizia allo stile tipico di Tokidoki, che in genere esula dalla realtà e dalle difficoltà di una trama schematizzata. Il reportage delle giornate giapponesi del GP rappresenta un’interessante esperienza isolata, una narrazione veritiera vista attraverso il filtro del super-deformed e la collaborazione con la Marvel per una serie di pupazzetti degli eroi più noti, è probabilmente il lavoro che più ha avvicinato Tokidoki al variegato cosmo della grafica a vignette. Il mercato di punta resta quindi quello dei toys, anche se negli Stati Uniti il settore è in lento declino, forse per via della crisi o più semplicemente per il naturale alternarsi delle mode, e si stanno esplorando canali alternativi di distribuzione, lontani da quelli tradizionali.

venerdì 9 novembre 2012

ANGELUS



L’Angelus 1857-1859 Olio su tela Cm 55,5 x 66. L’Angelus il cui titolo iniziale era “Preghiera per il raccolto di patate”è conservato al Musée d’Orsay di Parigi.

Umile, è la parola giusta per definire questa immagime rappresentata nel quadro. I colori bruni primeggiano sulla tela colorando terra e abiti, imbrunando anche l’aria in un paesaggio quasi privo di lussureggiante vegetazione e l’assoluta mancanza di alberi, sottolinea ancora di più la durezza della natura. La forza dell’umiltà viene tramessa dalle due figure di contadini poste al centro del quadro a capo chino e intenti a pregare. Un uomo e una donna vestiti di abiti poveri, lasciato temporaneamente il lavoro di raccolta di patate, paiono udire in lontananza un suono di campane e a tale suono mestamente si raccolgono in preghiera recitando il vespro ( le preghere del tramonto). Anche di attrezzi è povera la scena: un cesto, una forca ed una carriola sono presenti vicino alle due figure colme di devozione e semplicità. Che sia l’ora del tramonto possimamo dedurlo da alcuni particolari che a prima vista sfuggono all’osservatore. Ad una analisi più attenta possiamo notare che il cielo non è nudo ma alcuni uccelli in stormo, in alto nel quadro, volano in una determinata direzione istintivamente scelta per passare la notte in qualche radura. I colori che sfumano in tenue arancione nel cielo e l’aria bruna tipica del tardo pomeriggio li colgono attardati e ancora intenti al lavoro com’era d’uso in quel mondo, quando in lontananza, un suono di campane proveniente dalla chiesetta di cui si scorge il campanile quasi indistinguibile, li avvisa che l’ora del vespro è arrivata. Propongo questo quadro perchè trovo in lui una forza evocatrice straordinaria di quel mondo di cui ho fatto appena in tempo ad udirne gli echi e odorarne la povertà. Solo i racconti di vecchi braccianti o anziane mondine possono delinearci meglio quel mondo contadino in cui oggi non vi è più traccia fortemente riconoscibile. Un’idea di quel mondo, del modo di vivere può darcela il Museo Agricolo di Albairate, dove attrezzi, suppellettili e storia ci lasciano immaginare quella che è stata la vita rurale. Di Jean-François Millet i testi riportano che non era osservante e che abbia voluto rappresentare questa scena agreste basandosi sui ricordi dell’infanzia in Normandia.

martedì 30 ottobre 2012

GIAPPONE NELL'OCCHIO DEL CICLONE

Ultimamente il Giappone è spesso al centro delle notizie sulle pagine di cronaca estera.


1. La disputa territoriale contro la Cina per le isole Senkaku – scogli più che isole, che per le due nazioni rappresentano un punto d’onore patriottico piuttosto che un reale interesse territoriale si sta allargando a mavvhia d'olio e sta coinvolgendo anche Taiwan: a settembre, le motovedette nipponiche hanno sparato con i cannono ad acqua su 8 navi-pattiglia inviate da Taipei.. Una scaramuccia certo, che però si è trasformata in un preoccupante boicottaggio commerciale di tutti i prodotti nipponici nel Celeste Impero, con ripercussioni finanziarie considerevoli e persino delle conseguenze culturali inaspettate, perché ovviamente l’opera letteraria di Mo Yan ha pregi innegabili vista la forza della sua poesia visiva, ma il fatto che l’autore sia sempre stato dichiaratamente servile nei confronti del potere fa sospettare una piega politica del Nobel …

2. Come se il Sol Levante si stesse di nuovo chiudendo in un isolamento autoimposto, stanno esplodendo le tensioni anche nei confronti degli Stati Uniti. La questione irrisolta delle basi militari nell’arcipelago di Okinawa è costata il posto a più di un ministro da quando si è ripresentata prepotentemente nel 2009, dopo la prima vittoria dei Democratici al Parlamento dal dopoguerra, e il problema è una macchia taciuta nel curriculum dei rapporti diplomatici dell’amministrazione Obama che, senza concedere grandi spazi, ha inserito questo tassello nello scacchiere di rafforzamento bellico americano nel Pacifico. Oggi lo stupro di una donna okinawana commesso da un marine ha riaperto le vecchie ferite, riportando alla mente l’orrore del 1995 quando una ragazzina di dodici anni era stata violentata da un gruppo di soldati. La massiccia dislocazione dell’esercito in queste enclave è un problema per molti cittadini, che sono scesi in piazza per protestare e chiedere l’immediata chiusura delle basi – veri e propri mondi separati – ma altre persone rilevano i vantaggi, soprattutto economici, portati dagli stranieri in una delle regioni storicamente più disagiate del Giappone. Non si può prevedere come agirà lo Stato di fronte alla rabbia della gente perché, pur essendo un territorio strategico importante, la prefettura di Okinawa (alla periferia meridionale del Paese) è sempre stata discriminata. La crisi, quindi, apre un fronte interno oltre a quello esterno.

3. Intanto il ministro della giustizia Keishu Tanaka si è dimesso dopo ave riconosciuto i suoi legami con la yakuza. I rapporti tra malavita e politica non sono mai stata un mistero: in un Paese che si è ritrovato spaccato dai rapidissimi cambiamenti sociali dell’800, le organizzazioni erano l’ultimo baluardo di una struttura di potere gerarchica e lo sconvolgimento portato dalla sconfitta bellica del 1945 aumentò ancora di più il divario esistente tra cittadini e classi dominanti. Tale scollamento si è manifestato in maniera evidente con la tragedia del terremoto e dello tsunami del marzo 2011: in molte aree colpite è stata la yakuza a fornire i primi soccorsi.

4. E su questo punto si articola l’ultima, difficile sfida del governo che cerca di far fronte alle necessità energetiche nazionale di fronte a una popolazione sempre più critica nei confronti del nucleare. Le prime promesse di chiudere o ridurre i reattori attivi sembrano sfumare nel limbo della retorica mentre la gente scende in piazza con maschere di Halloween e cartelli contro l’uso pericoloso dell’atomo.

domenica 28 ottobre 2012

PIERRE SOULAGES

Born in Rodez (Aveyron) in 1919, Soulages also is known as "the painter of black" because of his interest in the colour, "...both a colour and a non-colour. When light is reflected on black, it transforms and transmutes it. It opens up a mental field all of its own". He sees light as a matter to work with; striations of the black surface of his paintings enable him to make the light reflect, allowing the black to come out from darkness and into brightness, thereby becoming a luminous colour.




Before World War II, Soulages already had toured museums in Paris seeking his vocation and after wartime military service, he opened a studio in Paris, holding his first exhibition at the Salon des Indépendants in 1947. He also worked as a designer of stage sets.



In 1979, Pierre Soulages was made a Foreign Honorary Member of the American Academy of Arts and Letters.



From 1987 to 1994, he produced 104 stained glass windows for the Romanesque Abbey church Sainte-Foy in Conques (Aveyron, France).



Soulages is the first living artist invited to exhibit at the state Hermitage Museum of St. Petersburg and later with the Tretyakov Gallery of Moscow (2001).



A composition he created in 1959 sold for 1.200.000 euros at Sotheby's in 2006.



In 2007, the Musée Fabre of Montpellier devoted an entire room to Soulages, presenting his donation to the city. This donation includes twenty paintings dating from 1951 to 2006, among which are major works from the 1960s, two large plus-black works from the 1970s, and several large polyptychs.



A retrospective of his art was held at the Centre National d'Art et de Culture Georges Pompidou from October 2009 to March 2010. In 2010, the Museo de la Ciudad de Mexico presented a retrospective of Soulages' paintings that also included an interview-video with the painter (Spanish subtitles).



... "KISS HER, KISS HER" - 21th century warriors

Inciampo nel cassetto aperto. Cado e la tazza piena di tè finisce in frantumi sul pavimento.


«Merda!»

Vorrei che qualcuno venisse a vedere cos’è successo. Vorrei che qualcuno dicesse “Tutto bene?” oppure “Dai, non è niente”.

Come può essere banale il bisogno di tenerezza!



Era successo qualcosa di simile anche quando avevo sorpreso Sylvia con Isao, il suo ragazzo di allora … No beh, più che “sorpresi”, li avevo “sentiti” al di là della porta chiusa della sua stanza … Squittii, risolini, sottomissioni consenzienti … Ero rimasta impietrita e il bicchiere mi era sfuggito in un arcobaleno di plexiglass.

Avrei voluto scappare per non essere fuori posto, ma invece mi ero fermata stupidamente a raccogliere i cocci – sottili schegge di vetro che mi ferivano le mani. Piangevo senza riuscire a fermarmi, senza sapere perché.

È ovvio che io fossi al corrente di quei suoi tentati amori senza troppo futuro, fughe a scadenza illusoriamente non programmata come yogurt lasciati apposta in fondo al frigo; il fatto è che fino a quel momento tutte le fangose storie sul sesso erano state soltanto ipotesi lontane proiettate su uno schermo, niente che potesse intaccare il mio mondo immaginario di pura amicizia, ma alla fine l’impatto doveva arrivare, violento con tutta la sua crudeltà in slow motion …

Quindi avevo tirato su ogni singolo vetro e poi ero andata via pian piano, in silenzio, senza far rumore … Le strade erano affollate della calca faticosa del sabato e il cielo prometteva pioggia mascherandosi dietro a un sole malaticcio.

In alto i gabbiani volavano in stormi disordinati lanciando grida funeste.

Una volta un’amica mi aveva raccontato una storia:

« C’era un uomo circondato da uccelli infuriati e cercava di scacciarli brandendo una katana! Se ne stava là a petto nudo e mulinava la spada in aria come un pazzo! Roba da matti, davvero».



Ho preso la metro, non perché avessi una meta ma solo per il piacere ottuso di scivolare nel buio, dentro la terraanonima. Fissavo le luci alogene delle stazioni cancellandomi i pensieri e registravo appena la presenza incongrua di un Darth Vader in ascesa stellare sulla scala mobile.



Siamo tutti eroi fuori dal tempo.



I cartelli sfrecciavano sconosciuti. Cosa ci facevo io lì, in una città troppo piatta per il mio piccolo cuore agorafobico? Sarebbe stupido pensare che davvero mi aspettassi una storia, perché ammiravo Sylvia con la muta venerazione che si riserva agli esseri superiori.

La sera prima, per il concerto, avevamo dato il meglio e lei brillava di algida gloria meccanica, con la sua giacca maschile su una minigonna ridottissima – i Doc Martinens allacciati fino al ginocchio in una posa marziale. Gli occhi cerchiati di blu pervinca brillavano nell’alternarsi di raggi stroboscopici dal palco mentre il frastuono di una canzone noise elevava il suo profilo sul piedistallo delle dee.

http://youtu.be/fn2UGBns8_E

Non avrei mai potuto sfiorarla. Lo avevo capito da subito, da quando lei aveva smesso di parlarmi direttamente per sfinirmi con attacchi subliminali che mescolavano le ricette francesi di un canale di cucina e le foto patinate di un depliant del supermercato …

In alto i gabbiani volavano in stormi disordinati lanciando grida funeste.

Se fossi stata più sicura di me, se fossi stata normale, avrei seguito il consiglio nascosto in quei versi sgraziati – Gra gra … “kiss her, kiss her” – e forse l’avrei baciata per farla tacere, come in una commedia rosa americana.

Ma potevo solo subire il diluvio d’impossibili bontà culinarie, guardarmi le dita – macchiate di sangue come quelle di una santa incompresa – e correre all’impazzata nel nero di un tunnel, assaggiando il peso della solitudine che mi piombava di nuovo addosso con il sapore nauseante della noia, con l’ipnotismo di un pezzo strumentale distorto, con la faccia sciupata e invecchiata di Kim Gordon.

giovedì 25 ottobre 2012

SEAGULL SCREAMING ...

Reprise: «Non ti senti bene?» disse Ondine dall’altezza vertiginosamente squadrata delle sue parigine di vernice «Vuoi che chiamiamo un taxi? Possiamo sempre metterlo in conto al boss» disse l’acqua sul fondo abissale degli occhi di Béatrice . «Se aspetti ancora un minuto, ti accompagno in autobus» dissero le braccia sottilissime di Jane mentre cadevo nella spirale black-out cerebrale.




Uno strano suono riaccende la mia coscienza fluttuante.

Ancora a occhi chiusi afferro il telefono poggiato sul bidone di latta accanto al letto e mi sforzo di mettere a fuoco. No, lo schermo è nero, spento e silenzioso, ma il rumore continua metallico e stridulo: viene da un punto imprecisato oltre la cornice soleggiata della finestra. Gra Gra Gra i gabbiani volano in formazione disordinata sui tetti, le ali quasi nere contro il cielo e c’è qualcuno che urla dalla strada (Per quante ore ho dormito?).



Una volta Annie mi ha raccontato una scena al limite del surreale.

«L’altro giorno» lampo rasserenante del suo sguardo chiaro «Sulla terrazza qua vicino c’era un uomo circondato da uccelli infuriati e cercava di scacciarli brandendo una katana! Se ne stava là a petto nudo e mulinava la spada in aria come un pazzo! Roba da matti, davvero». Eravamo a casa sua, all’ultimo piano di un palazzo dei vicoli, la città stesa su vari piani fino all’orizzonte – le cupole verdi di rame, le tegole d’ardesia liscia. Tramonto. Lei beveva una birra, affacciata alla ringhiera che dava sul vuoto – incredibile tentazione gravitazionale. Agitava la schiuma bionda nella bottiglia e parlava scuotendo i riccioli color miele.

Era ancora estate e noi ci vedevamo spesso. Preparava tabulé di couscous piccante per sé e mi comprava un vasetto di yogurt greco e una mela smith per cena. Parlavamo, inventavamo futuri possibili e il tempo scorreva e lei cantava una canzone di David Bowie con la sua angolosa pronuncia britannica imparata in un’infanzia londinese. … We can be heroes / just for one day … Già, potevamo essere eroi solo per un giorno …

Ma questo è stato prima, prima che il mondo si mettesse a girare troppo in fretta. Ora tutto è diverso. Ho sentito di recente che i secondini che fanno la ronda lungo le mura del carcere devono portare e caschi speciali per difendersi dagli attacchi degli uccelli, ombre tristi e impazzite, lontani dal mare.

Questo posto non ammette più la poesia. Se qui una gabbianella si credesse un gatto, verrebbe aggredita da un branco di pantegane, nate e cresciute sul greto radioattivo di un torrente pieno di spazzatura e di alghe fluorescenti.

Annie …

Ieri sera sono uscita, cercando un po’ d’aria pulita al di là delle quattro pareti della mia stanza piena di niente. Le serate sono ancora inaspettatamente miti e la strada si è costruita con i miei passi, un nastro lucente come il sentiero che conduce alla città di smeraldo – Tutto ciò che dovevo fare era sbattere tre volte i tacchi e ordinare alle mie Etnies di portarmi dove desideravo.

Volevo andare a trovarla … Sarebbe stato un gesto davvero letterario, così la vita sarebbe diventata racconto … Ma mi sono fermata, ho riflettuto: mi avevano insegnato che non si piomba a casa delle persone senza avvisare e soprattutto non alle otto e mezza, quando i fornelli sono già spenti e si smette la fatica quotidiana di “essere sociali”, quando ormai si è rassegnati all’anestesia del telegiornale ( anche se Annie aveva abolito la tv e lo schermo giaceva spento sul pavimento: le ninfee di Monet appiccicate sul vetro catodico e la cassa dipinta con un pattern zebrato lilla – Paint your life, baby!)

Sarebbe stato bello, sarebbe stato confortante poter almeno telefonare, lasciare una nota sospesa nella quiete di quel mini-monolocale bohemien, per poi riattaccare sentendo la voce all’altro capo di una linea immaginaria.



Sono tornata indietro nella desolazione solitaria dei viali d’autunno. Dovevo contattarla perché dicembre era alle porte e lei sarebbe partita per un tour alla ricerca dei suoi mille amici sparpagliati per l’Europa dal progetto Erasmus, e poi forse si sarebbe concessa una vacanza in qualche esotico paese orientale con spiagge da cartolina («Sai, ho sentito che la Thailandia è fantastica») … E intanto me ne sto immobile, soffocata dalla sabbia della mia clessidra che si esaurice.

http://youtu.be/YYjBQKIOb-w

lunedì 22 ottobre 2012

BAMBINI DI PIETRA - the little red raven

La domenica scorre con insopportabile lentezza e mi arriva il profumo delle cotolette al curry che Cassy sta friggendo per Ortensia, la nostra vicina. Da quanto tempo non sentivo lo sfrigolio nell’olio nella padella e l’odore speziato della farina croccante accanto alla nota delicata del riso basmati!


Stille d’invidia in microgrammi mi circolano veloci nel sangue, dilatando le narici e riempiendo gli occhi di una tristezza pesante … almeno quanto l’annuncio dei biscotti speciali alla cannella, lasciati da parte per una merenda con le amiche. Piccoli dolori della ricerca della perfezione.

Cosa mi aspettavo?

Ieri alla mostra, la magia di lineamenti che emergevano dalla pietra mi ha fatto pensare al disperato bisogno di comunicare qualcosa e, mentre andavo da una sala all’altra affrontando il percorso catartico degli scaloni genovesi, provavo a ignorare la presenza angelicata di Béatrice e Ondine da qualche parte tra le sculture di marmo rosa del Portogallo – volti distorti dalla nostalgia del futuro.

«C’è chi ha la fortuna di nascere bella e chi deve combattere per essere un po’ meno orrida» Sorridevo, ma nell’autoironia sentivo il sapore amarognolo della sconfitta. Non importa. Mi girava un po’ la testa e forse avrei potuto svenire strategicamente ai piedi di un artista coreano per farmi soccorrere con un sorso d’acqua – perché lo zucchero è stato esiliato dai miei orizzonti papillari.

No, troppa sfacciata sicurezza non fa per me. Preferisco il balsamo dolce delle lodi «Complimenti, complimenti: un ottimo testo. Bello, davvero.» Erano gli invitati che si materializzano sempre nel microcosmo degli “eventi culturali”.

Mi serviva un momento.

Mi sono chiusa in ufficio e ho acceso il bollitore pregustando il conforto di tè verde bollente. Vacillavo e Jane mi sosteneva con le sue braccia sottili. Pantaloni neri attillati, dolcevita a costine, un filo d’ombretto e i capelli tagliati di fresco «Non ti senti bene? Vuoi che chiamiamo un taxi? Possiamo sempre metterlo in conto al boss». Maledette paranoie economiche! Le sue parole mi arrivavano ovattate come un soffio, come il suono della pioggia d’estate in un boschetto di bambù – rin-rin: gocce che cadono sul verde brillante e liscio. «Se aspetti ancora un minuto, ti accompagno in autobus».

Sono tornata a casa quando il buio era già compatto e definitivo.

Mi sono sdraiata spegnendo il cervello (e il cellulare).

Il cuore rallentava tremando: un corvo rosso esposto nella fragilità della cassa toracica.

Cercavo il filo del racconto nelle pagine di un romanzo cinese, ma lo sguardo saltava tra le righe confuse e il corpo s’intorpidiva nel gusto appiccicoso dei cinquecento tagli di un boia professionista. Persino uccidere bene è un atto di rispetto nei confronti della vittima.

Sono una Fenice incompleta, rinata mille volte dalle ceneri. Prometea senza fegato in attesa del supplizio.

venerdì 19 ottobre 2012

BORIS KUSTODIEV






Boris Michajlovič Kustodiev in russo: Борис Михайлович Кустодиев (Astrachan', 7 marzo 1878 – Leningrado, 28 maggio 1927) è stato un pittore e scenografo russo.
Kustodiev nacque ad Astrachan', nella famiglia di un professore di filosofia, storia della letteratura e logica presso il locale seminario teologico. Suo padre morì giovane, ed il peso del mantenimento della famiglia ricadde sulle spalle della madre. La famiglia Kustodiev affittò una piccola ala della casa di un ricco mercante. È qui che il ragazzo formò le sue prime impressioni sulla vita della classe mercantile nella provincia russa. L'artista scrisse successivamente: "Il modo di vivere dei ricchi e facoltosi mercanti era proprio lì, sotto il mio naso... Era come se venisse da un'opera di Ostrovskij". L'artista conservò queste impressioni giovanili per anni, ricreandole successivamente negli oli e negli acquerelli.



Studi artistici

Tra il 1893 ed il 1896, Kustodiev studiò presso il seminario teologico ad Astrachan' e prese lezioni private di arte da Pavel Vlasov, allievo di Vasilij Perov. Successivamente, dal 1896 al 1903, frequentò lo studio di Il'ja Repin all'Accademia Imperiale delle Arti di San Pietroburgo. Nello stesso periodo, frequentò lezioni di scultura, da Dmitrij Stelletskij, e di incisione, da Vasilij Mate. Espose le sue opere per la prima volta nel 1896.

Repin scrisse: "Ho grandi speranze per Kustodiev. È un artista di talento ed un uomo serio e riflessivo, con un profondo amore per l'arte; sta eseguendo un attento studio della natura...". Quando a Repin fu commissionata la realizzazione di una grande tela per commemorare il centesimo anniversario del Consiglio di Stato, invitò Kustodiev come suo assistente. La realizzazione fu estremamente complessa e richiese molto duro lavoro. Insieme al suo insegnante, il giovane artista realizzò gli studi dei ritratti per il dipinto, ed eseguì poi la parte di destra del lavoro finale. Sempre in questo periodo, Kustodiev realizzò una serie di ritratti di personaggi contemporanei che sentiva essere i propri compagni spirituali. Tra di essi l'artista Ivan Bilibin (1901) e l'incisore Mate (1902). Il lavoro su questi ritratti aiutò considerevolmente l'artista, obbligandolo ad uno studio scrupoloso del proprio modello e a penetrare il mondo complesso dell'animo umano.

Nel 1903 sposò Julia Proshinskaja (1880-1942). Visitò la Francia e la Spagna, grazie ad un sussidio dell'Accademia Imperiale delle Arti, nel 1904. Sempre nel 1904, frequentò lo studio privato di René Menard a Parigi. In seguito viaggiò ancora in Spagna e quindi, nel 1907, in Italia. Nel 1909 visitò l'Austria e la Germania, e poi nuovamente la Francia e l'Italia. Nel corso di questi anni dipinse molti ritratti ed opere di genere. Comunque, indipendentemente da dove si trovasse, nell'assolata Siviglia o nei parchi di Versailles, Kustodiev sentiva l'irresistibile attrattiva della madre patria. Dopo cinque mesi in Francia tornò in Russia, scrivendo con evidente gioia al suo amico Mate che tornava ancora una volta "nella nostra benedetta terra russa".

Carriera artistica
La rivoluzione russa del 1905, che scosse le basi della società, stimolò una pronta risposta nell'animo dell'artista. Egli collaborò con le riviste satiriche Župel (Lo spauracchio) e Adskaja Počta (La posta dell'inferno). All'epoca, incontrò per la prima volta gli artisti del gruppo Mir iskusstva (Il mondo dell'arte), composto da artisti russi innovatori. Si unì alla loro associazione nel 1910 ed in seguito partecipò a tutte le loro esposizioni.

Nel 1905, Kustodiev cominciò a lavorare anche all'illustrazione di libri, un settore a cui lavoro per tutta la vita. Illustrò molte opere della letteratura classica russa, tra cui Le anime morte, Il calesse ed Il cappotto di Gogol'; Il canto dello Zar Ivan Vasiljevič', del giovane Opričnik e del valoroso mercante Kalašnikov di Lermontov; Come il Diavolo rubò ai contadini un tozzo di pane e La candela di Lev Tolstoj.

Nel 1909 venne eletto all'Accademia Russa di Belle Arti. Continuò a lavorare intensamente, ma una grave malattia, la tubercolosi della spina dorsale, lo costrinse a curarsi. Su suggerimento dei suoi medici si spostò in Svizzera, dove passò un anno sottoponendosi a cure in una clinica privata. Sentiva però la mancanza della patria lontana, e temi russi continuarono ad essere alla base delle opere dipinte in quegli anni. Nel 1918 dipinse La moglie del mercante, che divenne il più famoso dei suoi quadri.

Nel 1916 divenne paraplegico. Scrisse: "Ora tutto il mio mondo è la mia stanza". La sua capacità di rimanere contento e vitale, nonostante la paralisi, stupiva tutti. I suoi dipinti colorati e di genere gioioso non rivelano le sue sofferenze fisiche, e forniscono al contrario l'impressione di una vita allegra e spensierata. I suoi Il martedì delle frittelle e Fontanka (1916) prendono spunto dai suoi ricordi. Ricostruiva con precisione la propria giovinezza, in una attiva città sulla riva del Volga.
Nei primi anni successivi alla Rivoluzione del 1917, l'artista lavorò con grande ispirazione in diversi campi. Temi contemporanei divennero la base dei suoi lavori, che erano usati per calendari e copertine di libri, e negli schizzi ed illustrazioni per le decorazioni stradali. Le sue copertine delle riviste "Il campo di grano rosso" e "Panorama rosso" attirarono l'attenzione grazie ai soggetti vividi e chiari. Kustodiev lavorò anche nella litografia, illustrando i lavori di Nekrasov. Le sue illustrazioni per le storie di Leskov La rammendatrice e Lady Macbeth di Mtsensk, furono pietre miliari nella storia dell'illustrazione di libri in Russia, tanto bene corrispondevano alle immagini letterarie.

Scenografia
L'artista si interessò anche di disegno di scenografie. Cominciò a lavorare in teatro nel 1911, quando disegnò le scene per Un cuore ardente di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij. Il successo fu tale che le proposte continuarono ad arrivare. Nel 1913, disegnò scenografie e costumi per La morte di Pažuchin di Michail Evgrafovič Saltykov-Ščedrin al Teatro d'Arte di Mosca. Il suo talento in questo campo fu evidente soprattutto nel suo lavoro per le opere di Ostrovskij: È un affare di famiglia, Un colpo di fortuna, Lupi e pecore e La tempesta. L'ambientazione delle opere di Ostrovskij era la vita di provincia ed il mondo della classe mercantile, molto vicino al genere di pittura di Kustodiev, per cui fu in grado di lavorare facilmente e velocemente sulle scenografie.
Nel 1923, Kustodiev si unì all'Associazione degli Artisti della Russia Rivoluzionaria. Continuò a dipingere, incidere, illustrare libri e disegnare scenografie teatrali fino alla sua morte, avvenuta il 28 maggio 1927, a Leningrado.




LA BAMBINA CON GLI OCCHIALI - A yôkai in my kitchen

«Ti sei ferita, in cucina?» mi ha chiesto Cassy «C’erano un sacco di goccioline di sangue per terra»


Il profumo di “ Fresca Primavera” conferma una pulizia tardiva, uno straccio ancora bagnato in un angolo. Io stavo bene, nessun taglio sulla pelle bianca. Il gatto – “Cheshire” scritto in caratteri semi-evanesceenti sulla piastrina – aveva rovesciato una pentola sui fornelli, ma non si era fatto male e anche lo smalto rosso era rovinosamente intatto.

Da qualche giorno avevo persino messo via il “kit per il successo”, i miei attrezzi da fuochista per fiori scarlatti da disegnare sui polsi. Quando li osservavo, mi sentivo Vanessa Paradis legata al target del domatore di coltelli. Li avevo sistemati dentro a un astuccio di vernice blu con un pierrot aggrappato alla luna: tutto l’occorrente per scacciare il dolore.

«Forse c’è uno yôkai in casa.» Già, uno spirito ...

Una coppetta di ceramica per il tè che corre per le stanze per avvertire di una disgrazia imminente. Difficile credere in un periodo troppo positivo … Pare che io e Cassy siamo destinate a soffrire ma in silenzio – mi raccomando.

Sempre per cose minime che restano addosso come microfratture – cosa vedrebbe dio se potesse farmi una radiografia all’anima?

Magari nel futuro inventeranno un paio di occhiali per percepire la vera natura delle persone, il livello spirituale delle lenti per spiare sotto i vestiti delle pin up. Nel frattempo potrei comprare dei Ray Ban di plastica. Con la garanzia economica di una vista non polarizzata, sarò più neutrale in questa popolosa Terra di Nessuno. Scendo al mercato per provare i modelli allineati su un banchetto indo-musulmano ...

Il viso nascosto da una grande montatura da diva.

Alla fine tentenno e guardo il cielo carico di nuvole gravide: «Intanto prendo un ombrello».

Ho gli occhi gonfi, annaspo in un pantano e mi sembra di aver pianto tutto il giorno, anche se non ho versato nemmeno una lacrima … Ho l’impressione che, se non mi liberassi di questo peso mi verrebbe un’infezione di muco verde che, premendo nelle orecchie si trasformerebbe in un fluido salato e appiccicoso; ma ho anche paura. Paura che se dessi sfogo alla frustrazione, inonderei la mia camera con uno stagno in cui naufragare insieme a un topo, un dodo e altri strani animali, vero Alissa?

Ricorro a te quando sono sola.

Ricorro a te quando sono stanca di essere me stessa.

Ricorro a te quando ho bisogno di risposte.

Ora dimmi, quale tragedia annunciano le giravolte pazze della tazzina animata?



00.02 Faccio l’inventario delle mie disattenzioni. E ogni respiro allunga lista.

Potrei cercare nella lama calda un po’ di sollievo, potrei tagliare in superficie, sotto l’orbita. Somiglierei a una Vergine miracolosa, in piedi davanti allo specchio – click. Una polaroid da usare come santino per i prossimi auguri di Natale, se il mondo non finisce prima. Ci sono ragazze che s’incidono il viso in un rito di passaggio, ci sono quelle che vengono fregiate, ci sono quelle che per tutta la vita sono considerate oggetti. Non sono mai stata picchiata: niente lividi da giustificare a scuola dicendo di essere una sirena malata d’inquinamento, nessun segno d’amore deviante, solo la metafora perfetta di una Stockholm Syndrome platonica che mi sfiorava in punta di pensiero, perché io sono sempre stata l’ultima salvezza dopo la deriva. La mia rabbia non ha mai avuto diritto di cittadinanza e la solitudine è lentamente diventata la mia foresta personale, la mia norwegian wood piena di deboli fiammelle da accendere ai ricordi estinti.