sabato 28 dicembre 2013

ALL THE BEAUTY MUST DIE


 

Per un minuto di vita breve / unica, a occhi aperti / Per un minuto in cui vedere / nel cervello piccoli fiori / che danzano come parole sulla bocca di un / muto Alejandra Pizarnik (scrittrice argentina).

 

In farmacia spio il cartellone pubblicitario dell’ennesima pozione miracolosa “completamente naturale”. Leggo il bugiardino che promette di annullare interi banchetti pantagruelici e intanto provo a chiedere al commesso se ci sono basi scientifiche che mi consentano di credere alle magie della Fatina dei Denti. Lui tentenna – gli occhi azzurri, i capelli cinerini, il camice bianco con la croce cucita sul taschino: somiglia a un airone avvolto dalla nebbia. Rigiro la scatola tra le mani. La poso ed esco con una sensazione amara in gola. Devo tornare a casa prima che Cassy vada a lavorare. Nonostante tutto mi piacerebbe che mi vedesse indossare la mia nuvoletta di raso cinese da cerimonia.

Lei sta dormendo mentre mi lavo e calo d’all’alto l’armatura di sette sottogonne, ma i veli emettono un debole fruscio quando entro in soggiorno e sfioro una pila di libri ancora da leggere. «Vuoi che ti guardi?» le pupille faticano a trovare un punto concreto, mediando nell’incertezza sfocata della scena sdoppiata; le sue dita sono un ragno che tasta il tavolino in cerca degli occhiali.  S’illumina appena decifra le coordinate del mondo. «Sembra proprio una prima comunione» Non so se esserne felice. Non so se era questo che avevo immaginato. Per un secondo, la gioia esita agli angoli della mia bocca. «Avresti preferito che dicessi che sembri una sposa?» «Sì, forse» Sarebbe bello essere una principessa accompagnata dal Re sulla passeggiata in riva al mare, con le persone che suonano i clacson delle macchine e lanciano petali profumati (onde in sottofondo e sale nei capelli).

«Ci vediamo stasera, mamma». Mi stupisco io stessa: di solito non la metto in questi termini, ma ho bisogno di una carezza, ho bisogno di trattenerla ancora un po’ in questa bolla d’affetto sottinteso. L’ape-madre mi concede un momento strappato alla  monotonia della routine quotidiana – “su trajín” direbbe una poetessa di Buenos Aires, con il tintinnio mutevole di una nobile lingua prestata. «Dai, che la mia sveglia è già suonata da un pezzo!»

L’ufficio l’aspetta: con i clienti ipocondriaci e pigri, la scrivania che sa di tabacco e le stampe di Ligozzi arpionate ai muri.

 

Io sarò l’attrazione del sit-in che l’Associazione ha organizzato di fronte alla cattedrale.

 

Ammiro la forza di Noélia, la presidentessa. Ha la pelle ambrata che ricorda una mansueta nepenthes carnivora e una vitalità che sgorga dall’energia di gesti smisurati. Ha un cuore rosso appuntato sul petto e un occhio nero di trucco per attirare l’attenzione dei passanti. «Troppe donne vengono uccise, nel silenzio generale!» Protesta con una passione sessantottina e la morbidezza dell’accento esotico piegata alla veemenza delle sollevazioni.

Presentandosi al microfono, parla con naturalezza di sua figlia assorbita dalla voracità di una cellula imitativa (Penso: “La danza dei linfoblasti immaturi avrebbe un che di armonioso, se non fosse mortale”). Ascoltando gli accordi delle parole, tocco d’istinto le cicatrici lasciate sui miei polsi dall’indecisione: “Io non sarei stata in grado di vincere la disperazione dell’assenza”. 

Alla fine dell’intervento di Noélia, mi muovo tra i curiosi per andare a salutarla. È piccola di statura ma sprizza scintille elettrostatiche, in mezzo a Ife e Gabriela. Una è altera, scura, bella come una Regina africana nel suo completo nigeriano a motivi viola; l’altra è appena tornata dal Brasile e ha una grossa rosa di stoffa blu attaccata al bavero della giacca. Ho l’impressione di sfogliare le illustrazioni di una leggenda del candomblé. Mi avvicino, spezzando la perfezione dell’insieme.

«Come stai bene vestita così, ottima idea!» «È un omaggio a Pippa Bacca …» dal loro silenzio educato capisco che non hanno colto la citazione. «Era un’artista italiana che è stata violentata e ammazzata da un uomo, mentre faceva l’autostop in Turchua. La sua ultima performance itinerante voleva promuovere la pace e la fiducia nel prossimo» Spiego sorvolando sui dettagli che non riesco ad afferrare nella memoria (Penso: “A volte la vita dimostra una macabra ironia”). Era partita da Milano seguendo un’utopia dissestata sull’atlante stradale. Non era mai riuscita a raggiungere le cupole dorate di Gerusalemme.
 

domenica 8 dicembre 2013

KARMA DESEASES


«Cos’hai?» la preoccupazione di Ondine commenta le mie occhiaie scure e mi fa tremare il cuore. Lo sguardo scorre sull’ombra delle sue ciglia si perde in una scollatura appena accennata, dentro le righe marinaresche di una maglia Petit Bateau – Bellezza anni Trenta, un piccolo neo sullo zigomo; profumo di pompelmo e di gelsomino.

 «Nulla che non si possa curare con una lametta affilata» La verità è che l’indecisione mi uccide: le nuove offerte dal rutilante mondo della telefonia intelligente mi stanno per trasformare in una consumista assetata di applicazioni scaricabili.

Gioco con l’apertura a scatto di un cutter.

Avrei voglia di tessere le linee del Destino con una rete di ghirigori rossi. Disegno stigmate appuntite sul palmo della mano (Penso: “Forse Gesù aveva la stessa abnegazione sacrificale di Sid Vicious”). Ma ho sempre avuto orrore dei chiodi da nove pollici della crocifissione. Ho sempre avuto paura delle unghie lunghe della strega-sadhu.  

Avrei voglia di disegnarmi solchi profondi sulle guance (Penso: “Forse la Madonnina di Civitavecchia è una martire autolesionista”). 

Avrei voglia di provare mille punture scarlatte sulla pianta dei piedi (La corsa distratta di un fachiro principiante).

 

 Oggi, mentre scrivo l’ennesimo articolo da sottoporre alle ire del Boss, la testa gira e le lettere si confondono sullo schermo ultra-minuscolo del mio portatile troppo lento.

 «Non posso darti uno spazio su internet. Dobbiamo pensarci bene, perché poi è l’associazione a metterci la faccia, capisci? Se tu un giorno impazzissi e parlassi benissimo dei “Pinguini Coccolosi”, poi ci andremmo di mezzo noi. … O se ti venisse la sindrome di Tourette e di punto in bianco mandassi un post insultando tutti ...» Fuochi d’artificio rossi-rossi lavano l’offesa, pirotecniche secrezioni gialle-gialle purificano il mio Ego. Qui urge un rito per punire gli insinceri.

Devo andare in bagno, sciacquarmi il viso, guardarmi allo specchio per capire chi sono. Mary Ellis sogghigna e non lascia correre nulla. Da un po’ è così: qualsiasi cosa faccia non è mai sufficiente e il cumolo di arretrati diviene sempre più minaccioso e caotico sulla mia scrivania. Non ho scampo.  – Spezzo le croste protettive, riapro ferite.

È sorprendente quanto sia rosa e tenera la carne sotto la pelle. Qualcuno ricorda i globuli paffuti con un marsupio sulla schiena, quelli del cartone animato sul corpo umano? Avevano sempre un bel sorriso gentile, loro.

 «Forse è meglio se vai a casa». È di nuovo Ondine che mi sveglia dalla letargia ovattata, quasi spingendomi verso la porta. Sì, comprerò in farmacia dei cerotti pediatrici che si abbinino con i colori dei miei braccialetti: detesto le normali strisce di plastica che sembrano uscite dal bancone del macellaio, mentre quelle bianche fanno sembrare tutto più drammatico del necessario, come in una specie di documentario sul triage.  … Ma mi soffermo sull’idea di usare una medicazione da naso: le due ali incerte di una farfalla distese sui crateri irregolari.

 

Sul ponte il vento è forte e teso. Un capannello di persone si sporgono oltre il parapetto, indicando qualcosa tra l’erba del greto asciutto; un bambino urla: «Un cinghiale! Un cinghiale!» e tira fuori il cellulare per condividere la foto su facebook e garantirsi il suo quarto d’ora di popolarità. … Più avanti un uomo sminuzza due fette di pane da buttare al cucciolo selvatico, dimenticando che non si tratta di un’oca da giardino.

Lo Spirito della Foresta è sceso a valle per ammonire gli umani ma ora si nasconde, stordito dalla paura. Attraverso la scena come un’attrice fuori dal suo ruolo. – D’altronde mi ho avuto spesso la sensazione di non riuscire a entrare nei panni che mi erano stati assegnati.

 Le cicatrici esposte pulsano contro l’aria. Magari il mio braccio è stato maledetto com’è successo al Principe Ashitaka condannato dalla forza sovrannaturale dell’odio. Un giorno o l’altro ucciderò qualcuno, in preda a un raptus do lucida follia surrealista ma intanto, per riprendermi, ho bisogno di stendermi e chiudere gli occhi … anche solo per un secondo.

Alle otto la serratura è ancora chiusa a doppia mandata. L’ingresso è avvolto in una luce arancione che bagna la guzmania fiammeggiante sul carrello.

Mi butto sul letto disfatto e provo a dormire ma da qualche parte un solerte vicino aziona un decespugliatore trasformandosi in un moderno bandeirante da discount intento a pareggiare una siepe di rose spinose. Il mio cervello è costretto a rimanere su “on” e accendo meccanicamente il televisore. “Dev’esserci per forza almeno un programma interessante nel mosaico dei pixel digitali!” La maggior parte dei canali è oscurata da un potere demoniaco che recita “Assenza di segnale”, precipitandomi nel blu dello schermo vuoto.

Sposto il lenzuolo.Ho lasciato due macchioline scure / trasparenti sul sorriso buonista di Winnie the Pooh.

Mi alzo barcollando e calpesto un pulcino di piume gialle che è caduto dal mobiletto. ne avevo comprato dieci da regalare per Pasqua, e lui è avanzato dal mucchio. Ora mi fissa spiaccicato sul pavimento. Triste, pigola come i suoi fratellini veri asciugati a morte dentro un essiccatoio.

Potrei passare a salutare Hortensia.

 

Sua figlia Agatha ha avuto un bambino ma la sua pancia non si è ancora sgonfiata: nel romanzo che ho appena finito di leggere, succede lo stesso. Magari potrei consigliarle un rito sciamanico, la circumambulazione intorno al suono argentino delle campane sacre o la meditazione, anche se poi nel libro la malattia viene sconfitta da un’imprecisata diagnosi occidentale e la protagonista torna normale, senza trovare la bellezza: non si può invertire la ruota del karma.

Intanto, per sentirmi umana, ho comprato un pensiero per il piccolo che compirà sei mesi tra poco (Penso: “mezzo anno è un traguardo importante”).

Premo il pulsante elettrico: «Ho portato un regalo per Alexis» Il nome era stato un mio suggerimento, in omaggio all’utopia entusiasmante di Zorba il Greco.

«Grazie. Che pensiero carino!» Hortensia sorride e mi fa accomodare in cucina dopo aver chiuso le porte, per non far scappare i gatti. Mi offre un bicchiere d’acqua, per non farmi sentire a disagio di fronte alla cena imbandita sul tavolo.

Gesticolo stancamente commentando la mia giornata di lavoro buttato e le solite notizie del telegiornale – Il Papa Nero benedice colombe; in California si consuma un’altra strage di ordinaria follia.

I ciondoli scivolano sul mio polso lasciando scoperti i morsi del rasoio «Cosa ti sei fatta?» La domanda cade candidamente nella conversazione, aleggiando su di un piatto di formaggi speziati. Mi fisso le mani per un secondo. Sono tese, azzurre, magre. Le mie mani sono foglie. «Niente che tu debba sapere». È la prima a essersene accorta, questa volta. In passato mi era capitato di dover giustificare i buchi inventando un incidente col motorino che non ho, ma anche in quel caso gli occhi di chi sapeva si erano tinti di una sfumatura di preoccupazione partecipe.

Decido di non dirle nulla di Agatha e del ciclo delle reincarnazioni. Lei non si spinge oltre e l’imbarazzo svia il discorso.

Di certo anche Cassy non avrebbe la stessa reazione, se avesse il tempo di osservami da vicino, se avesse il tempo di vedermi

Non mi posso lamentare per questo. Se davvero percepisse la mia debolezza, una smorfia amara d’impotenza le segnerebbe il viso, il suo affetto si colorerebbe di tonalità aggressive «In fondo ti piace, no? Farti del male! Prego, perché non continui» mi porgerebbe qualche arma da cucina in segno di sfida rassegnata e intanto penserebbe: “Mia figlia è una spostata” e solo dopo arriverebbe a“Mia figlia ha un vuoto dentro”. E, se anche mi chiedesse chiarimenti, la mia risposta sarebbe sempre la stessa: «Non è niente che tu debba sapere»

Ho scommesso la mia vita per diventare un fantasma - «Fino a che punto vuoi spingerti?» mi ha chiesto una volta un’amica giapponese. «Fino a sparire …, così: “pufff”»

Sono morta.

Ero già morta quando sono atterrata su questo Pianeta – come un pesciolino alieno fuor d’acqua.

L’altra me – quella che dice di chiamarsi Alissa – è scomparsa nella nebbia.
http://youtu.be/IBH97ma9YiI
http://youtu.be/NOG3eus4ZSo
http://www.youtube.com/watch?v=AvJKVKglIRs&feature=share&list=AL94UKMTqg-9AIiIsJrXBVaxCZpiEurHLK&index=1
http://youtu.be/MiNz28XML30