giovedì 22 maggio 2014

ESPUMADOR



Ho imparato che dietro al dolore c'è sempre altro dolore, come i cereali dietro una barretta di cioccolato al latte.
Quando mi sveglio, il pomeriggio non è ancora fresco e il mondo fuori è immobile come l'avevo lasciato.
Preparo un caffè con la polvere solubile, mescolo l'acqua calda rompendo la schiuma scura in superficie e lancio il cucchiaino nella conchetta dei piatti sporchi, di rimbalzo, con la precisione di un cestista.
Quella delle riserve idriche stagnante è una mania particolare del paese, come fossimo in una savana africana e in realtà non sono riuscita a dormire molto mentre una zanzara cercava di pugnalarmi le pupille. Il risultato è che sono stordita, incapace di articolare parole su un computer quasi privo di connessione. Guardo sconsolata le colonnine del segnale che lampeggiano in agonia e mi viene in mente l'ultima puntata del solito telefilm medico: un paziente malato di SLA decide di farsi staccare il respiratore per donare i suoi organi ancora funzionanti. Con i circuiti bollenti potrei costruire una macchina per il trasporto dimensionale che mi porti lontano da qui.
«Vado a farmi un giro. Cercherò un posto tranquillo e all'ombra dove leggere»
Seguo la strada che abbandona le case e si dirige verso il Santuario sulla costa. Aumento il volume tonante del mp3 e riprendo il vecchio gioco di camminare solo sulla linea bianca lungo la carreggiata. Mi sento come un cagnetto scaricato sull'autostrada o uno dei bambini di Stand by Me, anche se non c'è nessuno a cantare con me. Il paesaggio è vuoto. Poche persone, miniature in un quadro fiammingo. Per evitare un ragazzetto palestrato che sta truccando il motorino nel suo bel giardino succulento, fisso le rovine di una carrozzeria arrugginita, buttate in un orto di ulivi: sembrano gli aerei dell'aviazione inglese nascosti nei campi greci. Le foglie sugli alberi lanciano occhiate verdargento.
Mantengo i passi sulla curva di gesso anche quando rasenta gli spigoli di un muretto a secco, anche attraversando un roveto carico di fiori di gelso.
Penso a Sylvia. Insieme passavamo ore su quell'asfalto sciolto dal sole a concatenare sillabe, ma ora lei se n'è andata per vivere un destino in technicolor, fatto di smorfie buffe e magliette a righe in una città dalla squisita allure francese tardo-coloniale. La sua immagine digitale  ha i colori pacati del filtro “calmo”. È immersa nella luce cangiante delle vetrate di una cattedrale neo-gotica e sorride stringendo la tazza di carta di un espresso ultra-lungo e mi lascia indietro.
Allungo il passo quando la striscia si fa discontinua per restare in equilibrio sopra l'abisso, un frammento dopo l'altro. I segmenti slabbrati sono monticelli di coca da cancellare con una sniffata. Si diventa iperattivi o socievoli o aggressivi, prima dell'epistassi inevitabile. Ricordo la scena di Pulp Fiction in cui Uma collassa e John le  fa un'iniezione di adrenalina dentro un puntino segnato sul cuore con un pennarello.

Niente da fare, la linea bianca mi riporta inesorabilmente indietro. Quando apro il cancello, Cassy è sul terrazzo con il rigattiere albanese, che ha portato in regalo un'inquietante sedia da barbiere anni Cinquanta che, piegata e piena di polvere, rievoca certe rasature definitive alla Sweeney Todd. Mangiano mini-susine gialle, brindano a spuma – altro residuato post-bellico che solo qui resiste alle evoluzioni del mercato – e lui sta riportando gli ultimi aggiornamenti dal bollettino dei necrologi: «Comunque la signora che viveva nel Condominio non è morta» Dei sessanta abitanti di Bottomburg, sessantuno hanno già passato i cent'anni e la lista dei decessi è diventata la principale fonte di gossip sulle panchine dei giardinetti – per il resto infestati da cani, tossici e bambini in proporzione variabile.

Poco prima avevo visto la vecchia in questione affacciarsi al balcone per controllare l'andirivieni sul marciapiede che considera suo dominio personale. Sembrava la Calavera  Catrina, ma con un'aria decisamente meno simpatica.
Saluto con un cenno apatico per evitare di essere coinvolta nella conversazione, mi infilo in sala e cerco  una connessione ballerina. L'etere vibra, provando a ribellarsi. Inserisco i numeri d'accesso e la chiavetta lampeggia con uno sforzo ubbidiente.
La realtà scorre anche senza di me. In un centro sociale stasera suona un gruppo giapponese. Stringo i denti e cancello la notifica.
Dietro al dolore c'è sempre altro dolore”.
La mia tazza è rimasta sul tavolo. Vado in cucina e aggiungo dell'acqua calda direttamente del rubinetto ignorando gli organismi mitocondriali che scendono nelle tubature – tanto verranno sterilizzati dalle microonde. Per un attimo provo a visualizzare come sarebbe essere uccisi da un bombardamento di radiazioni che scindono e surriscaldano ogni molecola. Le ditte americane raccomandano di non mettere i propri animali domestici dentro gli elettrodomestici ma, finché non apri lo sportello, il gatto è sia vivo che morto ...  


La vita ha un sapore diluito e sporco che bisogna trangugiare in un sorso. Per non avvelenarsi. 
http://youtu.be/Au0OUrhn-x8
http://youtu.be/jMfKZOBo74w

martedì 13 maggio 2014

TAMING ALISSA


 
«Ehi, è pronto!» Controvoglia chiudo il computer e spengo la luce, pronta per l'ennesima dose di prediche.

Ieri Cassy - nelle vesti amare di D – ha scoperto uno dei miei imbrogli numerici e ora mi sta col fiato sul collo (a questo punto è come quando in clinica ti metti in fila per la pasticca). Non sarà piacevole.

Faccio una smorfia. “Perché mi ha chiamato se la cucina odora ancora di cane bagnato e sul tavolo regna il caos di Sodoma e Gomorra?”

 

In realtà Cassy sta cercando espedienti per risvegliare il mio scarso interesse. Due giorni fa è riuscita persino a strapparmi una risata «Ti servono delle magliette brutte per stare in casa?» Dispiega una t-shirt bianca con la scritta “La storia di Francesco” sopra a un disegno simil-cubista «Adesso sembra una maglietta del papa!»

 

Il nuovo obiettivo è analizzare l'intricatissimo orario delle corriere che scendono “in città”.  Accompagnarmi in macchina la ferisce con tutto il peso di ciò che lei non è più ma andare da sola mi conferma l'incredibile solitudine che mi porto dietro.

Sospiro.

La prima tappa sarà la stazione: devo comprare un biglietto per andare a trovare mio fratello Sam (anche se penso che rovinare i suoi pomeriggi di fancazzismo vacanziero una volta l'anno non sia sufficiente a definire il mio ruolo di sorella maggiore).

Il parallelepipedo dell'edificio nuovo ha un che di pretenzioso e ridicolo, coi due binari piazzati sul fondo dei tapis roullant perennemente rotti, ma per oggi mi fermo nell'atrio semi-vuoto e aspetto il mio turno dietro a due tedeschi in tenuta balneare.

Il supermercato sarà la seconda meta, tanto per rimpinguare scorte e varietà di cui mi vergogno (e che è meglio non specificare). Passando tra gli scaffali stipati di merce multicolore scelgo anche un succo di frutta e un pacchettino di biscotti da offrire nel caso il tuttofare albanese torni con la sua splendida bambina di due-barra-tre anni. Giovedì è passato prima di andare allo spettacolo dei burattini nel campo sportivo polivalente. La piccola ha i capelli color miele, due occhi enormi da Bambi e un vestitino azzurro ... Potrebbe essere Alice prima d'incontrare il Bianconiglio, prima che suo padre la dichiari pazza e tenti di rinchiuderla. L'ho guardata muovere timidamente la manina per salutarmi e sono tornata per un secondo umana, con il vago desiderio di sentirla parlare. O di farla sorridere ....

Dunque l'idea è di comprare una merenda per addomesticare la mia volpe, ma il panorama di curve che si snoda giù per la collina mi colpisce come un insulto, con un cobalto screziato di bianco tanto bello che meriterebbe di essere in un quadro impressionista (o almeno in una buona riproduzione) e invece mi sta davanti, troppo reale perché io possa raggiungerlo.

Mi siedo sull'autobus sforzandomi di concentrarmi su qualcos'altro. Alzo al massimo il volume della musica per annullare le conversazioni di due ragazzini ma uno di loro mi tocca su una spalla «Sorridi, che la vita è bella!» Il tono, come sempre è beffardo. Non rispondo, non reagisco. Sono una statua di pietra. “Sarà bella la tua, di vita, stupido truzzetto di periferia con il cappellino rigido. Ti sentirai momentaneamente appagato ora che puoi titillare il nuovissimo modello di I-Phone”.

“E comunque, io sono sprofondata tante di quelle volte che  per uccidermi non basterà di certo la tua battutina appesa a un filo di ragno”. Aumento ancora i decibel e provo a immaginare il mio cervello che esplode  tappezzando l'abitacolo di materia grigia (solo che non è grigia. È verde smeraldo. Perché sono un'aliena).

Al ritorno, sulla piazza del paese, mi ricordo della lezione degli irriducibili punk scozzesi. Se un insetto ti molesta, ti giri con un movimento abbastanza fluido del polso e gli molli una catenata dritta sul naso. Per questo, alle 19.09 ora locale entro dal ferramenta e chiedo cinquanta centesimi di anelli ferrati da serrarmi intorno al collo con un'opportuna spilla da balia. Il commesso, ovviamente, non capisce. «Vieni giù che ti faccio vedere» Armato di tenaglie, mi porta in un capannone sotto il livello della strada (non nascondo che la situazione ha dei risvolti inquietanti).  «Attenta al ... » Cammino su di una pozza di cemento scuro e uniforme. Mi guardo indietro: forse ho lasciato l'impronta come una star del Walk o' Fame? No, non ci sono tracce. Evidentemente non sono destinata a restare nella memoria distorta dei poster(i).

 

Come previsto D ha smesso di parlarmi (stiamo facendo il gioco del silenzio per vedere se così riusciamo a respirare senza sbranarci) e l'atmosfera è pesante – come a dire “Per quanto ti ribelli, saremo sempre prigioniere, ma chi è il carnefice e chi la vittima?”. Invece d'informarsi sulle novità del mondo esterno (che mi disturba), lei si limita a incurvarsi sulle sue piante, con una tetta che le penzola fuori dal costume giallo. Ecco un'altra mirabile barriera per tenermi a distanza ... Un giorno o l'altro potrei lanciare un aeroplanino acceso tra le foglie.   

http://youtu.be/xGQ6dCUSfHc