mercoledì 19 marzo 2014

HVARF-HEIM



«Io dovevo avere due figlie, due femmine» diceva il mago Salamander al di sopra di una coppa di gelato al melone. E aggiungeva, come se fosse una certezza: «Me l’ha detto il pendolino» «Allora sarà meglio che ti sbrighi!» Scherzava Cassy con un minimo di civetteria femminile. «Nessuna delle tue donne ormai è idonea, o sbaglio?» Lui rideva, con lo smalto consumato del seduttore «Avrei bisogno di una giovane, tra i venti e i trent’anni!»
La mia bustina di tè verde al riso tostato “genmai-cha” girava in tondo su bordo della tazza, prima di cadere e sciogliersi nell’acqua bollente, come un pendolino incerto che cede al futuro ammiccando al passato. «Non guardare me. Non ho i requisiti minimi: non sono né interessata né funzionante»
Avevo aspettato per quattro anni le tonalità di quel sapore e ora, nella grande città, avevo ritrovato tutte le sue declinazioni: il calore rassicurante delle colazioni d’inizio settembre, il fresco rifugio dei pomeriggi roventi d’agosto, la semplicità del cavolo al peperoncino che faceva pizzicare il naso e persino la croccantezza delle alghe per gli involtini, che si chiamavano “kimbap”sugli scaffali fornitissimi di un supermercato coreano (a tratti giapponese).
Le provviste – da stipare in valigia – erano arrivate per caso. E io mi godevo la sospensione della pena comminata dall’incontro celestiale tra un folletto islandese che percuoteva la sua chitarra con un archetto di legno bianco e un ragazzotto londinese che, nato nel quartiere dell’Inferno, aveva accantonato la sua ombra virtuale per saltare su un palco in carne ed ossa. Il cantante non era più attraente (forse non lo era mai stato) e faceva pensare a Peter Pan che riceve il ditale da Wendy.

Due concerti d’argento vivo avevano riportato me e Cassy nella capitale, a casa dell’alchimista, nello studio pieno di conchiglie votive, corvi d’ardesia e teneri gattini della Thun. Le mensole della libreria si piegavano e gemevano sotto il peso dei volumi accatastati secondo un senso personale (un dizionario di tedesco accanto alla prima edizione di Madame Bovary e a dischi di musica klezmer).
Sul pianerottolo, leggendo una poesia appesa allo stipite della porta, finiamo a parlare di disastri aerei.
«Ogni volta che salgo su un aereo, niente m’impedisce di pensare che potrei finire su un’isola del Pacifico ed essere attaccata da un orso polare» La mia battuta era ben congegnata ma lo sguardo interrogativo di Sal mi aveva fatto perdere slancio.
Indubbiamente, nonostante il pozzo incredibile delle sue conoscenze colte, lui aveva bisogno di qualche lezione di cultura pop, tanto per rompere il guscio. Non perché fosse davvero necessario, alla veneranda età di Gandalf, ma perché gli universi da scoprire sono così tanti che sarebbe comunque un peccato barricarsi dietro a una porticina rotonda e aspettare che la Compagnia lasci la contea.
Per questo – per sorprenderlo e incuriosirlo – io avevo provato a trasmettergli l’adrenalina elettrica del pogo, appena uscita dall’arena del sacrificio, nella notte ancora afosa e piena di grilli invisibili.
«Pog-go?» (e lo pronunciava così, in modo strano, con due “g” separate). «Sì, saltare a tempo prendendosi a spallate … A volte con un po’ di sputi di contorno» Anche se dirlo in questo modo, non rendeva l’idea di rabbia e di bellezza selvaggia, furiosa, impotente: una spinta centrifuga che trovava ragione solo in se stessa e si risolveva accartocciandosi e rigenerandosi nello scontro vettoriale.
E quindi la sua domanda cruciale «E perché?» Perché è sporco, bello ed esltante.

Io potevo spiegare questo e altri piccoli misteri degli universi sotterranei mentre lui mi portava a vedere il Mosè di Michelangelo miracolosamente solo, in una chiesa vuota alle prime luci del mattino, quella stessa luce che irradia dalle corna freudiane della statua candida e splendente.
Poco più in là, dentro una teca di cristallo e oro stavano appese delle catene, come se fossero i ceppi di Biancaneve vegliati da un angelo di bronzo scuro e da un dio della morte alato e con la falce.
“L’unico modo di scrollarsi di dosso i propri fantasmi era trovarli” profetizzava il protagonista del libro che stavo leggendo, ed io all’improvviso, di fronte a quelle rappresentazioni di morte, avevo capito chiaramente ciò che avevo già intuito e scritto.

 Dicono che il Mago abbia già una figlia – una sola – e che mi somigli. Ma lei è una fata iridescente mentre io sono una bimba-pipistrello appesa a testa in giù sull’abisso, dipendente da uno psycho-mondo nevrotico. Siamo opposte eppure gemelle; contemporanee e disgiunte. Due note dello stesso frastuono.

http://youtu.be/8AuJdkZkgCw
http://youtu.be/Wc18xt5wQnk


venerdì 14 marzo 2014

YOSHITSUNE E I CENTO FIORI DI CILIEGIO


Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, lei ha scelto la peggiore.
Avrebbe potuto dire: «Beviamo un succo insieme al nuovo bio-bar del porto, ho sentito che è buono!»; Avrebbe potuto dire: «Andiamo da Muddy, fanno delle centrifughe grandiose che sanno di Giappone: ti commuoverai di sicuro!»; Avrebbe potuto dire persino: «Proviamo a vedere se Al Locale c’è qualcosa che anche tu possa mangiare …»
Sarebbe stato bello, per una volta ridere e condividere.
Ma tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, lei ha scelto la peggiore: «Io preparo e poi tu mi raggiungi in ufficio»
Reggevo il piatto con una mano, stiracchiando la speranza miracolosa di non incontrare nessuno per strada … ma questo prima, prima di incrociare una delegazione di attori bollywoodiani che scendevano le scale saltando gli scalini a due per volta, dentro ai loro sgargianti vestiti di scena (come se fossero in missione segreta). Ok, imparerò anch’io i passi di danza per unirmi alle coreografie e seguire le parole a mani giunte: “Una volta che hai capito chi sei, quel che conta è il cielo stellato” ripete la canzone che ho inventato.
Quando arrivo sul pianerottolo la sua voce, nella stanza è un trillo acuto. Il suo sorriso ha la spontanea, allegra crudeltà dei bambini mentre usa un ventaglio come arma. Un movimento cognitivo involontario le aveva fatto trovare il modo più letale per umiliarmi. Resto seria, impugnando le posate con la ferocia meccanica di uno spaccapietre per non sentire il sapore di ciò che mi rotola in gola. Un altro spostamento d’aria corrisponde al suono tagliente del campanello. La imploro in silenzio, con le occhiaie sempre più viola, ma si alza richiudendo le stecche con un colpo secco. «Scusa un secondo, dev’essere il corriere dell’altro ufficio» …
E resto sola.
Schiacciata da decimetri cubi d’aria – «Il “tessen” è ferro avvolto nella seta» sussurra Erin al mio orecchio «e a volte può essere letale» E continua a raccontare: «Il padre di mio nonno era un guerriero e ne aveva uno sempre infilato alla cintola, perché all’epoca era vietato portare spade nelle abitazioni e nei castelli e quindi occorreva avere uno strumento che si confondesse col normale abbigliamento. Il mondo è sempre stato un luogo pericoloso». Scompare con un sospiro mentre la porta si apre e si richiude.
Cassy brandisce un foglietto e non sembra essersi dimenticata di me.
Succede spesso.
E io voglio un contatto. Allungo la mano sul piano della scrivania, sopra l’imbottitura bordeaux resa rigida dagli anni e dalle bruciature di sigaretta.
Adesso dovrebbe essere il momento in cui lei nota le mie cicatrici e non dice nulla accarezzando i segni di un traslucido rosarancio (il colore delle spose), e invece è distratta dal bagliore paleo-catodico di uno schermo obsoleto e pesta sui tasti cercando i codici da inserire sul modulo da stampare. Non si accorge di niente. «Scusa sai ma è lavoro …»

Solo un’amica, qualche giorno fa, ha lanciato un’occhiata al cerotto confuso sotto mille braccialetti di plastica: «E quello cos’è? Piantala una buona volta!» Penso: “Perché mi giudichi se lo hai fatto anche tu milioni di volte?” ma invece di attaccarla le allungo il cellulare, mostrando la successione di passaggi per la creazione di fuochi d’artificio. Sono tracce pericolose che dovrei cancellare, se non fosse per l’orgoglio stupido del martirio con retrogusto esibizionista. «Oddio! Ma hai  cercato di tagliarti le vene??» Non è preoccupazione ma semplice disapprovazione con doppio marchio interrogativo. «No, è solo una goccia artistica …» Cerco la battuta giusta per finire la frase « … E poi le vene normalmente sono dall’altra parte, mi dicono!»

Rifletto un secondo. Non sarebbe difficile spingersi un po’ più in là nel giro della morte – Quanti strati di pelle irrorata ci saranno prima di arrivare all’azzurro pallido delle nervature?