mercoledì 26 dicembre 2012

ALFRED STEVENS





Alfred Stevens (Bruxelles, 11 maggio 1823 – Parigi, 29 agosto 1906) è stato un pittore belga.


Alfred Émile Stevens nacque a Bruxelles, dove fu iniziato alla pittura da François-Joseph Navez, a sua volta allievo di Jacques-Louis David. Stevens fu soprattutto attivo a Parigi, dove si stabilì nel 1844. Iniziò la sua attività dipingendo quadri sulla vita miserabile delle infime classi sociali parigine, finché un suo quadro ("Ciò che viene chiamato vagabondaggio") attirò l'attenzione di Napoleone III che lo vide in occasione dell'Esposizione universale del 1855. Quell'opera spinse l'Imperatore a rivedere il modo con cui l'esercito arrestava i vagabondi, che andava certamente a beneficio dell'immagine dei soldati, ma non di quella dei vagabondi.
Per un certo tempo i suoi temi storici ed il suo gusto per il kitsch orientalista ne fecero un pittore accademico, ma, a partire dal 1860, Stevens cambiò radicalmente soggetti e raggiunse un enorme successo grazie a quadri di giovani donne vestite all'ultima moda, che posavano in eleganti ambienti interni. Le sue scene di interni borghesi lo avvicinarono alla pittura di Henri Gervex, e venne anche soprannominato il "Gerard Terborch" francese per la sua perizia nel riprodurre i dettagli e le stoffe sontuose.
L'Expo di Parigi del 1867 fu per lui un trionfo, anche perché ricevette per l'occasione la Legion d'Onore. Stevens si trovava a suo agio tanto alla corte di Napoleone III e nell'alta società, quanto negli ambienti artistici e "bohemiens" della capitale. Fu amico intimo di Édouard Manet - al quale presentò il mercante d'arte Paul Durand-Ruel - e della sua cerchia di conoscenze: da Edgar Degas a Berthe Morisot, a Charles Baudelaire. Ebbe anche una certa influenza su James Whistler, col quale condivise la passione per le stampe giapponesi.
Dipinse inoltre delle "marine" e dei paesaggi costieri, in uno stile però assai più libero, si direbbe quasi impressionista, prossimo a quello di Eugène Boudin o di Johan Barthold Jongkind.
Negli ultimi anni il suo stile somigliò molto a quello del suo contemporaneo John Singer Sargent. Nel 1886 Stevens pubblicò anche "Impressions sur la peinture", un libro che ebbe una considerevole diffusione, e nel 1900 fu il primo artista vivente a cui fu dedicata una mostra personale presso la "Scuola di Belle arti" di Parigi.
Smise di dipingere dopo il 1890, per ragioni di salute, e morì a Parigi nel 1906 alla rispettabile età di 83 anni.
I suoi quadri sono stati molto popolari anche in America, dove la potente famiglia Vanderbilt ne acquistò diversi. La maggior parte di queste opere, però, rimase comunque in Francia o in Belgio.



martedì 25 dicembre 2012

MAWARU PENGUIN-XMAS




L’orologio sullo schermo segna già le 5:00 p.m. – “KYUU!” disse il Pinguino Numero Uno, sbriciolandosi in schegge di cristallo lucente.


Accendo una candela al lampone. Una lama anestetizza la tristezza di un’apocalisse mancata – “KYUU!” disse il Pinguino Numero Due. Vorrei che qualcuno mi avesse trovato salvandomi dall’oblio.

Sorseggio un tè caldo e nero nella nera solitudine intermittente delle lampadine sull’albero – “KYUU!” disse la piccola Numero Tre, tricottando la sciarpa rosa del Destino.

Annullo il dolore con il rumore di una compilation poco natalizia. – “KYUU! KYUU!” disse Esmeralda, la numero quattro, preparando una biglia esplosiva per cancellarmi la memoria.



Poi miracolosamente il campanello gira trillando, appena udibile tra le onde distorte «Questa sarebbe una canzone d’amore perfetta!» Meg è sulla soglia illuminata.

È un susseguirsi di baci e abbracci e applausi.

Improvvisamente sono circondata di gente e per un attimo non sento il vuoto. Quel vuoto illegittimo, che aspetta in un angolo pronto a strisciare fuori invadendomi.

Nuovi amici, nuovi visi e discorsi animati; ma non ci sono le facce note, il conforto di sapere che il passato esiste ancora, relegato in un cassetto, e che non ha portato solo sofferenza.

Nemmeno Josh è venuto (nome di risacca e voce di fumo).

Eppure ieri sera mi era parso che indicasse proprio me, mentre cantava le antiche canzoni grunge del nostro paleolitico musicale.

Eppure gli avevo anche ricordato l’appuntamento.

Il mio telefono resta in silenzio. Nessun avviso di messaggio in arrivo.

Lascio che una Wiston Light si consumi a metà nel posacenere e apro la porta per fare gli auguri alla foto di K appesa al battente in versione Santa Claus.

Norman e Momoka stanno salendo le scale in una nuvola di tulle e jabots e riempiono la serata della gioia delle visite inaspettate, fluttuando dagli anime da consigliare alle tesi sull’esistenzialismo. Persino il ragazzo di Megami sembra preso come Socrate nell’agorà ateniese, e si accalora parlando del valore filosofico dei fughi, che diventano velenosi se finiscono sotto zero. Di solito LockE è una persona più schiva ma l’effetto folla dello “ultimo shopping” e qualche bicchierino di grappa, sciolgono la lingua e le inibizioni. È piacevole buttar lì una frase ogni tanto e farsi scorrere addosso le parole, ma gli spettri sono sempre pronti a colpire.

«Ti vedo meglio. Due anni fa eri davvero troppo magra!» “Che significa?” “Ti prego Brandon, fermati qui, non aggiungere altro”. D’accordo forse un po’ di tempo fa non avrei resistito a un party per nove ore consecutive, forse non sarei riuscita a sorridere con la costanza di una Monnalisa cyberpunk, ma non so quanto valgono la libertà e tutto il futuro che mi sono giocata.

«Devi fregartene degli specchi e romperli tutti!» Gabriela mi stringe forte contro il suo petto che profuma di cucina e fiori di stoffa. Poi ricomincia a parlare in portoghese con un bimbetto di undici mesi (l’ospite più giovane che abbia mai avuto) – è una cantilena dolce, pioggia armoniosa sul tetto.



Passo leggera tra i tavoli imbanditi. – “Cosa succederebbe se mangiassi un tramezzino vegetale?” “In fondo non contiene grassi animali …” “Cosa succederebbe se …” . – “KYUU! Mi rivolgo a te che non otterrai mai niente dalla vita” disse la Bambina Anatroccolo travestita da Principessa dei Girasoli, sussurrando nella mia testa.

Avrei desiderato un principe che spezzasse le sbarre della mia gabbia d’argento morto. Se questo fosse stato un mondo perfetto, mi avrebbe scelto infilandomi al dito un gettone di plastica da luna park, e io mi sarei addormentata, innocentemente aggrappata al suo collo e sarei partita con lui su di uno splendente cavallo da giostra, appoggiata alle finiture dorate, al bianco vintage del dorso di legno – monotono dondolio di un organetto francese sulla storia che si sfilaccia in petali cremisi.

Visualizzo la mia bestiolina-guida e scivolo. “KY-UUUUUUUUUUUUUUUUUUU!”



Mi scuoto e sono sempre davanti a un buffet estraneo. Azzardo una piroetta visuale per individuare Cassy, persa in un crocchio di donne armate di spumante e convenevoli.

Anch’io adesso sono capace d’indossare una corazza e di calarmi nel ruolo della padrona di casa. Volteggio e afferro il capo di una conversazione sciolta. Posso addirittura pensare che sto bene. E, in effetti, sto bene perché ogni gesto d’attenzione chiude un buco dell’anima, ma qualcosa si strappa in profondità e lascia vedere un oceano oleoso di errori.

“I Love You All”

domenica 9 dicembre 2012

THE GRINCH FROM OUTER SPACE


C’è qualcosa che non va in questo nostro “Rispettare la Tradizione”, perché mi accorgo subito che l’atmosfera è diversa, pesante, malata.

Facendo finta di niente – Sissignore, come se fosse tutto normale – sistemo le decorazioni sull’albero – è un albero finto, di plastica verde, spruzzato di deodorante boschivo, per sembrare più naturale: da anni abbiamo rifiutato la pratica barbara di lasciar morire un vero abete confinandolo in un vaso (aculei secchi che coprivano il pavimento, simili a preghiere inascoltate).

Prima le palline più grandi – al centro e sui lati (le due bianche con la corona di peluche quasi simmetriche, una a destra l’altra a sinistra) ; poi quelle di vetro trasparente, con il filo lungo, da mettere verso il fondo; quindi le più piccole – sulla cima un po’ depressa, abbattuta.

Dove i rami artificiali pendono sul presepe, creo un cielo di stelle e angeli svolazzanti, cercando un equilibrio ideale tra rosso, dorato e argento.

«No, non lì!» la mia voce è appena troppo stridula «Non vedi che non va bene, così?» Cassy prova a piazzare un globo colorato in mezzo alle mie schiere celesti. «No, non vedo. Sto facendo uno sforzo per stare in piedi, ok?»

Il silenzio della consapevolezza esplicita cade sulla colonna sonora natalizia che romba dalle casse cinesi del computer. Fino all’anno scorso ci saremmo divertite insieme, io a cantare e lei a fare i coretti.

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci»

«Manca lo scatolone con le luci» …

La ripetizione azzera una frase e la riscrive sullo schermo bianco della memoria.

Serro le labbra e la ignoro.

I tentativi di spensieratezza si sbriciolano mentre giro la chiavetta di un carillon e Silent Night si mescola a Enter Sandman.

Il rito non è compiuto finché non appendo sulla cima l’ultima decorazione, la più povera e tenera. I vari puntali non hanno resistito – ossidati dal tempo, corrosi dalla neve artificiale che usavamo prima del cotone – ma quella minuscola sfera coperta di tessuto giallo ha attraversato la furia sottile dei Natali Passati e si è guadagnata il diritto di segnare il momento, come una bandierina sulla linea del via.

«Mi sento male. Ho la nausea»

«Ok, vai a sederti di là. Ti preparo qualcosa di caldo. Qui finisco io dopo»

L’incantesimo si è spezzato, ma provo lo stesso a recuperare un tono conviviale «Beh, è una bella compilation per la festa di domenica, no?»

(…) Esita «Non è un po’ troppo rumorosa?» L’illusione che Cassy possa davvero tornare si frantuma come uno specchio lanciato per terra: la donna che mi sta davanti, con la schiena poggiata su una pila di cuscini, è innegabilmente D e ha una smorfia amara e un colorito giallognolo che la fa somigliare più al Grinch che a Babbo Natale («Oh-Oh-Oh, Merry Christmas!»).

Mi alzo, per nascondere un tremito che minaccia di diventare pianto.

Accendo la stufa.

Da un po’, da quando il termometro ha cominciato a calare, lei dice di aver freddo e s’intabarra con scialli e coperte.

La osservo sgretolarsi lontano dalla portata delle mie mani gelate e aggiungo il poncho cileno sul piumino, sopra il pigiama di pile, per non dover attaccare il riscaldamento anche nella mia stanza. D’altronde, che altro potrei fare io per ridurre i costi? Il fantasma della Crisi ha aggravato le mie paranoie economiche e adesso mi ritrovo a vivere in continuo scontro tra risparmio e perfezionismo.

Sarà difficile sopravvivere all’inverno. Ammesso che il 21 dicembre il meteorite dei maya non risolva il problema alla radice con la forza cosmica del Giudizio Universale.

Se il Mondo intero non scompare in un cratere, appenderò alla porta di casa un cartello con scritto Survivors – Ad Art Attack, hanno spiegato come tagliare un pezzo di cartone in modo che sembri un’asse scampata al naufragio.

Immagino che già il 20 inizierà una pioggia di messaggini e mail, un rincorrersi affannoso di previsioni mentre gli americani si trincereranno dentro i loro bunker nel giardino di casa. Alla tv, i talk show avranno un display su cui scorre il conto alla rovescia (Meno 9… 8… 7…)

Il 22 ci sveglieremo cambiati: evaporati, trasformati in scarafaggi o in fito-umanoidi mazoniane. O magari con le orecchie a punta e testa oblunga.

Gli orologi si fermeranno e poi riprenderanno il loro ciclo.



Stringo la tazza bollente. Butto giù un sorso di mate rovistando mentalmente tra i possibili argomenti di conversazione, ma le parole hanno perso smalto e riecheggiano vacue, rimbalzando.

Meglio abbandonare qualsiasi accenno e posizionare ancora qualche statuina sullo scenario fisso dei monti di cartapesta. C’è un contadino con delle galline più grosse di lui, quattro re magi con dromedario ed elefante, un Totoro col suo flauto di pan, e una pecora decapitata: vanno tutti verso una sacra famigliola messicana.

A Giuseppe – José per gli amici – manca mezzo cranio. Lo spazio dietro agli occhi è vuoto e riflette il luccichio blu di un foglio stellato.