giovedì 29 novembre 2012

PIET MONDRIAN "Albero grigio" e altre evoluzioni



L’approccio iniziale della  carriera pittorica di PIET MONDRIAN segue la corrente impressionista, molto in auge alla fine del 1800, volgendo poi verso il luminismo – la versione olandese del fauvismo. Questo approccio consente a Mondrian di svincolare il colore dai suoi riferimenti naturali, incentrando la ricerca pittorica sui componenti fondamentali: forma, linea e colore.



I primi quadri mostrano i mulini, i canali, i fari, le dune, i campanili e le chiese che il pittore incontra dipingendo en plein air. Sono i suoi soggetti preferiti perché, come da lui scritto, desidera entrare in contatto con la natura e con l’essenza delle cose.

Tra il 1910 ed il 1911 dipinge il trittico “Evoluzione” che rappresenta la sua adesione alla dottrina teosofica. Il colore è molto importante, in quanto il blu rappresenta la parte spirituale. Mondrian, però, non sarà mai soddisfatto di questo trittico che avrebbe potuto “sviluppare in maniera differente”. Nel quadro si legge prima la figura di sinistra poi quella di destra ed infine quella centrale nella quale gli occhi aperti e una maggiore intensità luminosa indicano la raggiunta visione di una verità superiore.

Ora il disegno inizia a semplificarsi. Fondamentale per lo sviluppo di Mondrian è la serie degli “Alberi”, interpretato in vari quadri tra il 1908 ed il ’12. L’albero da sempre rappresenta l’evoluzione della parte terrena che cerca di spingersi verso lo spirituale – i rami che puntano al cielo. Nel dipinto “Albero rosso” si ha una prima evoluzione stilistica. Il tronco è ben definito mentre i rami cominciano ad essere sintetizzati in forme più semplici. I colori iniziano e diventare importanti, riducendosi a due colori primari: il blu ed il rosso. Nel quadro seguente “Albero grigio” la forma è sempre riconoscibile e si stacca ancora dal fondo, che nel frattempo è diventato una superficie piatta. Nella successiva evoluzione verso l’astrazione abbiamo il “Melo in fiore” dove l’artista mostra solamente delle forme geometriche: i piani e le sembianze iniziano a scomparire, trasformandosi in linee curve, con colori dai toni modulati.

Da questi quadri Mondrian inizia il percorso verso la geometrizzazione, slegandosi dai principi del cubismo, col quale era entrato in contatto prima in Olanda ed in seguito a Parigi, dove si trasferì per dipingere.

L’artista inizia la sua ultima fase dell’evoluzione sempre ispirato dalla dottrina teosofica, che ha come finalità l’armonia tra interiorità ed il mondo esterno. Procede con l’eliminazione degli elementi ritenuti superflui, alla ricerca della Bellezza che intende rappresentare in una forma ancora più concreta di quella presente in natura. Le linee sono rette, semplici. Alcune attraversano completamente il quadro, per delimitare meglio lo spazio, altre sono brevi, a suddividere la tela. Le linee nere hanno diversi spessori, le campiture di grigio e dei colori primari (rosso, giallo e blu) sono stesi con una attenta varietà di pennellate orizzontali e verticali. I quadrati di colore, inizialmente posizionati in centro, si spostano verso i bordi del quadro, per focalizzare maggiormente l’attenzione sulla composizione, basata solamente sulla sua intuizione. Nei lavori incompiuti presenti nella mostra si notano le linee a carboncino disegnate da Mondrian e utilizzate per raggiungere l’armonia compositiva. La separazione tra emozione e ragione non esiste più. Mondrian ha terminato il suo percorso. Nella mostra sono presenti anche tre modelli dei suoi atelier, dove si nota anche in quel caso un’evoluzione fino a giungere alla purezza di linee dello studio di New York, che ritroveremo successivamente nei lavori dei maggiori architetti e designer del Ventesimo secolo.



LE RANDEAU DE LA MÉDUSE



Dopo la pioggia, il cielo è slavato e bianco, indifferente come un occhio cieco. La perturbazione Medusa ha lasciato un sole malato.

Pietrificati e sospesi n una bolla di Tempo, corriamo verso il naufragio aspettando la Fine del Mondo su una zattera affollata di cannibali. Riempiamo le strade di lucine natalizie un po’ più fiacche e tristi.



I colori nelle vetrine mi attirano e mi respingono: “Con quel vaporoso golfino chiaro assomiglierei a Hide-sama” Sì certo, se fossi un maschio nipponico piuttosto figo …

Cerco strategie per comprare i regali di rito senza dover accendere un mutuo, passo tra gli scaffali, mi faccio tentare da un libro. È nuovo.

Profuma d’inchiostro fresco di stampa.

Semaforo verde alla cassa 6 /Semaforo rosso alla cassa 2.



Impossibile non pensare all’impeccabile impiegata giapponese che al Consolato scandiva con precisione meccanica i numeri di clienti e sportelli come se annunciasse la tombola.

Allora era tutto più semplice perché ero davvero sola con Me Stessa.

Allora era tutto più difficile perché ero davvero sola con Me Stessa.

Mi guardo intorno.

Appena uscita dal negozio, dovrò correre in bagno.

Quattro porte e l’insegna di McDonald’s lampeggia carica di energia calorica.

Scendo le scale a precipizio verso il traguardo segnato da una donnina stilizzata sulla porta di simil-legno a spinta. Non tolgo nemmeno l’auricolare. Che effetto fa liberarsi con il Duca Bianco che ti canta nell’orecchio? “Ashes to ashes / Funk to Funky … “.

Nel Paese dei Crisantemi, il cinguettio degli uccellini si attiva quando ti siedi sulla tazza e un pannello illustrato ti spiega cortesemente come usare tutti i possibili confort idroriscaldanti. Una strana interpretazione della purezza spinge a nascondere la verità del corpo, un’eleganza aristocratica che mi fa tornare in mente i giardini solitari del Palazzo Imperiale: una cortigiana che scrive con il pennello, una madre che stringe il fazzoletto nel pugno per non mostrare le lacrime, un intellettuale che sistema un mazzo di gigli in un vaso …

La finzione contenuta cancella i sentimenti e le loro ragioni profonde e, per cercare le radici, alcuni si perdono nei paradisi artificiali gestiti dagli psicoterapeuti, trasformandosi in caricature bovine dell’essere umano.



Io mi sono divincolata dalle capsule di monitoraggio e osservo la realtà muovendo lo sguardo verso l’interno buio della coscienza, analizzando il movente d’inattese reazioni chimiche.

Perché la foto di Norman e Momoka – così innegabilmente INSIEME – mi ha turbato?

Per me, la gentilezza dell’amicizia è l’apice di un rapporto, dopodiché – questa volta sì – si apre uno sconosciuto empireo abissale d’impurità non necessarie, talmente indesiderabili da apparire lontane anni luce, come l’ipotesi della riproduzione aliena.

Norman e Momoka.

Adesso è lampante: le stesse passioni, la stessa pettinatura da manga, gli stessi vestiti presi a Harajuku … Eppure c’è qualcosa che mi sfugge …

martedì 27 novembre 2012

ANDREA SI è PERSO o LA BANALITÀ DEL MALE

25 NOVEMBRE.


Giornata contro la violenza sulle donne.

Ascolto un professore di sociologia delle migrazioni spiegare che la discriminazione di genere è stato il tassello fondante della gerarchia sociale patriarcale e capitalista, e mi domando quale valore possano avere ventiquattro ore con un fiocchetto ufficiale sopra a fronte dei dati sempre più allarmanti che ci giungono non solo da Paesi lontani, quasi inimmaginabili, ma persino dalla nostra Italia. Il 70% delle donne uccise avevano denunciato qualche forma di abuso, spesso da parte del compagno o ex-compagno. E ci sono notizie ancora più tremende che confermano la terribile logica del branco, la necessità famelica dell’essere umano di cercare un anello debole, un capro espiatorio da colpire per non sentirsi troppo fragile. Facendo le debite proporzioni, è la teoria della Banalità del Male di Hannah Arendt: assimilare il “diverso” al rango di “bestia” per giustificare la propria crudeltà. Gli indios delle Americhe non avevano un’anima; i neri non avevano un’anima; le donne erano prive d’intelletto: non c’era nulla di sbagliato nei massacri in nome della civilizzazione, nelle punizioni corporali estreme o nella rivendicazione di un possesso oggettivo. E non si tratta di un capitolo chiuso della Storia: i campi di rieducazione nella Cambogia di Pol Pot e quelli dell’attuale regime cinese, il caporalato nel nostro sud, le operazioni di guerra a Gaza e in Siria …

E poi ci sono tante micro-storie, di quelle che occupano un trafiletto sul giornale per un giorno e poi spariscono nel dimenticatoio: il suicidio di Andrea,quindicenne romano che non tollerava più le continue prese in giro e il bullismo dei compagni di scuola. Siamo tutti indignati. Per un momento. Dopodiché scattano i retro-pensieri stereotipati: “Ah beh! Andava in giro con i jeans rosa e lo smalto sulle unghie! Era un gay!” – come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da giustificare. Persino i quotidiani danno tutto per scontato e la morte di un ragazzo così giovane s’inscrive nel registro dei fatti annunciati e quasi naturali. Ciò su cui bisognerebbe davvero riflettere è l’atteggiamento fuorviante dell’informazione e addirittura della Procura – che indaga senza ipotesi di reato ed è restia ad aggiungere l’istigazione ai capi d’imputazione. Se non proprio “istigazione”, si potrebbe allora chiamare “diffamazione aggravata” (visto il tragico risultato). Come finirà? Con una semplice diffida? Non è la prima volta che un giovane si toglie la vita per disperazione dopo essere stato pesantemente deriso (e purtroppo non sarà l’ultima!) ma chi se ne ricorderà? Chi si ricorderà i nomi delle mogli, fidanzate e madri vessate dagli uomini della loro stessa famiglia? Chi parla più dei femminicidi messicani, la cui lista si allunga sempre di più mentre il governo copre i potenti colpevoli?

Non sono episodi sporadici di barbarie contro civiltà: in Tunisia a ottobre è stata stuprata dai poliziotti e poi accusata d’indecenza, e anche in Italia – che per anni ha guardato con perverso divertimento e pure con segreto compiacimento al fenomeno bunga.bunga / burlesque, e che rifiuta di riconoscere la regolarità delle unioni omosessuali – ci sono state vicende analoghe che non hanno lasciato strascichi e si sono spente nel nulla. È facile allora dire che si deve lavorare per cambiare la mentalità, ma nella pratica sembrerebbe quasi impossibile, dato che si dovrebbero sovvertire le logiche dominanti di un intero sistema corrotto fin dalle fondamenta.

Non bastano le parole se poi nei libri di testo i nomi di pittrici, scrittrici, politiche, eccetera si contano sulle dita di una mano; e soprattutto se i media in generale e la pubblicità in particolare continuano a proporre un’immagine distorta che declina e perpetra i vecchi schemi della cultura machista. Schemi che, attraverso questo costante stillicidio si riproducono, radicandosi nelle menti delle persone comuni: “Se sei un maschio medio, puoi fare quello che ti pare”. A lungo termine questo è un’autodistruzione collettiva, perché è provato che le donne rappresentano un’importante risorsa d’innovazione in campo culturale, economico e lavorativo.

Qual è la ricetta per arginare di questo disastro?

giovedì 22 novembre 2012

WALKING IN MY SHOES

È confortante uscire in pigiama per andare al mercato, indossando sopra la maglia di flanella il piumino a orsetto che mi ha regalato Altair in quell’ultimo Natale silenzioso.


Ricordo l’atmosfera tesa e strana, e la speciale tenere innaturale che nasce tra due persone che, per non ammettere i propri sbagli, si parlano rivolgendo brevi monosillabi al frigorifero. Adesso non saprei dire come è iniziata la resistenza cocciuta del mutismo, o meglio, non so se valeva davvero la pena di difendere uno stupido baluardo ideologico. «Se è così che vuoi condurre la cosa, perché non ti suicidi subito?» Già, “Continua a passare per le finestre aperte” disse uno scrittore in un hotel del New Hampshire.

«Se tu fossi nata con qualche problema, avrei chiesto di staccare le macchine». A sentirlo, avevo pensato che fosse crudele, ma forse era solo dannatamente realista- Non potevo tollerare che la mia trasparenza da diafana Principessa passasse così inosservata, così fraintesa da sembrare pazzia. “Cosa vuoi da me? Che mi alzi e faccia una giravolta, e poi la faccia un’altra volta?”.

Dopo la riverenza, forse ero arrivata alla fase della penitenza e lui, con quella sua preoccupazione mascherata goffamente da cinismo, credeva che fosse meglio essere odioso e lasciare tutto sulle spalle curve di Cassy piuttosto che guardarmi negli occhi e starmi a sentire.



E allora non vedo nulla di sbagliato nella mia piccola trasandatezza e non mi cambio per uscire a comprare frutta e verdura. E margherite viola per mio padre – anche se in realtà vorrei dei crisantemi giapponesi, gonfi e aperti come damigelle aristocratiche nelle stanze proibite dello Shôgun – e lilium amaranto per K.

Anche lui andava in giro in pigiama, semplicemente per stare più comodo. A chi gli domandava perché fosse sempre imbronciato, rispondeva «Sono sveglio: non è sufficiente?»



Mi fermo dai casalinghi a prendere un pelapatate per sbucciare le fuji che mi servono per sopravvivere: un modo gentile e preciso per strappare la pelle sottile e mettere a nudo la polpa bianca – Ogni analogia con il mio sistematico metodo del dolore fisico è puramente casuale ma estremamente suggestivo.

Come un dio della morte con una mela rossa nelle mani grigie, penso di poter continuare in un assurdo regime di frutti succosi, zucchine, yogurt e poco altro …

Se a tutto questo aggiungete un po’ di curry, avrete la ricetta dell’amore!

Se conoscessi il nome e il volto di quelli che mi hanno fatto del male, li ucciderei in quaranta secondi scrivendo sul mio nero quaderno!



Rievocando la cucina (i suoi odori e le sue implicazioni affettive), guardo l’ora sul cellulare e stringo i pugni contro i manici di plastica dei sacchetti: è tardi ma Cassy non sarà ancora rientrata. Non vale la pena di affrettarsi, però devo ancora fare la doccia e selezionare, nella cascata vomitata dagli armadi, i vestiti da mettere per il lavoro.

Le vetrine del centro sono una sfilata di tentazioni e mi sono ritrovata a fare mille foto a oggetti del desiderio che si allontanano sempre di più man mano che mi ripeto che è meglio aspettare i saldi. Persino un paio di scarpe da donna è comparso in questa galleria di cartamodelli virtuali. La zeppa alta e il colore impossibile mi hanno fatto venire in mente Sylvia: sarebbero perfette per lei mentre probabilmente io sembrerei ridicola e traballante su quelle zattere senza un approdo.



mercoledì 21 novembre 2012

BARBARA CANEPA E ANNA MERLI



Barbara Canepa si è trasferita in Francia in cerca di maggiori possibilità espressive e oggi gestisce una propria collana editoriale con la quale pubblica i suoi lavori – concedendosi tempi di elaborazione piuttosto dilatati – e sostiene altri giovani autori. La crescita personale di un artista sta nell’evoluzione individuale e si alimenta del rapporto con il prossimo e dell’attitudine mentale a curare ogni segmento della creazione lasciandosi influenzare da tutti i possibili stimoli: nel caso di End, si ritrovano molti La realizzazione di una singola tavola può durare cinque giorni o anche di più e può soffermarsi su una sola vignetta per un giorno intero perché spesso la creazione viene scomposta in ben centottanta livelli di analisi: un approccio radicalmente diverso rispetto a quello quasi industriale del fumetto giapponese, che si concentra sulla quantità prediligendo i piccolo formato e il bianco e nero. Le immagini di Barbara Canepa vengono rielaborate su due binari paralleli, sia in analogico che in digitale anche se promette di tornare all’uso tradizionale del colore per il prossimo volume di Skydoll, previsto per il 2014 (il terzo capitolo è completamente colorato a computer). Il processo di correzione e perfezionamento su End è stato lungo e meticoloso, studiato a quattro mani con la collega Anna Merli tornando a ripensare la base manuale della grafica, riscoprendo le matite e i toni scuri tipici delle illustrazioni vittoriane, con un monocromo cupo che dà l’impressione di antico, legato al tempo gotico e al concetto di morte e un’atmosfera molto diversa da quella pop e luminosa di Skydoll. Uno sguardo rivolto al passato non significa dimenticare il presente: per comunicare con le nuove generazioni è necessario mettere nella narrazione aspetti di moda e di design restando al passo coi tempi e addirittura anticipandoli. Anna Merli disegna ma i compiti in realtà non sono suddivisi in maniera rigida. In particolare, Barbara si occupa dello storyboard e lo invia ad Anna che fa i primi schizzi e le due si consultano sul tipo di scenografia da allestire: spesso le autrici utilizzano l’espediente della quinta teatrale, rappresentata da un tronco o da una tomba scura o sfumata, come se l’occhio fosse una camera che cambia continuamente posizione. → Lorenzo Mattotti e D’Alò hanno sfruttato lo stesso trucco per il loro Pinocchio, recuperando l’idea del palco da opera. Da qui nasce l’ispirazione per un intreccio che serve soprattutto a parlare di se stesse e della condizione femminile, arrivando a toccare la sensibilità di un pubblico di lettrici fragili.

La prima fase prevede dei semplici acquarelli: si tratta di una tecnica pittorica che di per sé comporta la sovrapposizione di tanti strati per creare una texture particolare su uno speciale supporto di “carta-cotone”. In seguito Canepa aggiunge o corregge i dettagli con Fotoshop e passa alla scansione riassegnando i giusti valori a ciascuna sfumatura, in modo che non sia alterata sulla pagina: in questo passaggio, lavorando in quadricromia, è possibile cambiare totalmente l’impostazione di una tavola, trasformando per esempio tutti i rossi in blu.

Inizialmente le artiste si erano concentrate quasi esclusivamente sulla ricchezza visiva, dimenticandosi persino di inserire i balloon e stanno quindi pensando di curare un’edizione di end senza testi, con un foglio trasparente sovrapponibile alle illustrazioni a grandezza originale.

martedì 20 novembre 2012

COLD IS AN ANIMAL

Il freddo è un animale difficile da sconfiggere. Da un giorno all’altro la stessa gente che fino a ieri girava in maniche di camicia prenderà d’assalto i negozi cinesi in cerca di stufette elettriche e trapunte termiche. Necessità che nascono improvvise ogni anno, in congruamente inaspettate.


Cammino tenendo i pugni chiusi sotto il collo ampio del maglione. Stingo le spalle. Il segreto, forse, è mantenere in circolo il calore prodotto dal movimento. Se mi fermo, il vento mi taglia le orecchie sotto la lana morbida del cappello.

Ci sono anche angoli inondati di sole quasi tiepido, come la piazza, brillante per luce polverizzata dell’acqua che ricade convergendo nella vasca, o il marciapiede della farmacia, dove finisce il budello tortuoso del borgo. Messaggi che lampeggiano di verde / blu / verde-verde: OMOGENEIZZATI IN OFFERTA – MISURATORE DI PRESSIONE A 29.90… Segue l’ora che segna il ritmo dei passi. Ho i miei punti di riferimento sparsi sul percorso: l’orologio della stazione (ci vogliono quaranta minuti), il display attaccato sulla facciata vicino alla tabaccheria (ancora venti minuti). Mi affretto, il respiro diventa quasi affanno di fiato concentrato. Una campana, da qualche parte batte sette rintocchi e mezzo e diventa indispensabile arrivare a casa presto.



Presto (Riverbero della mia anima che già al primo eco ha il sapore della ripetizione).

Per preparare le recensioni di questo mese mi sono data una regola che ottimizza i tempi: tutte le andate ruggiscono nel motore un po’ vintage di un Seattle Sond nostalgico e tutti i ritorni sono ovattati di testi islandesi piacevolmente bright pop.



Avrei voluto entrare un attimo da Tiger, con quel suo confortante odore di grande magazzino scandinavo e la sua lieta atmosfera precocemente natalizia. Devo iniziare a cercare dei regali (piccole cose, gadget, decorazioni di ceramica e angioletti con i capelli di paglia e le ali di stoffa).

Chissà se le vie di Copenhagen sono piene dello stesso profumo di fiaba organizzata? Lo chiederò a Chris nella prossima mail.

Da quando si è trasferito ci scriviamo spesso.

Se sei circondato da un perenne biancore o da una perenne tenebra, ti abitui a dormire quando hai sonno, senza guardare il colore del cielo. Ti abitui a convivere con i Mumin – mansuete creature ippo-Troll – nascosti nei boschi di conifere subito oltre il confine di candide città da cartolina. O almeno, io immagino che sia così. Ma penso anche alle micro-punture della neve che ti gela le mani e il naso, e alla follia di andare in bicicletta con dieci gradi sotto zero.

La mia è una mite città di mare, però non è facile restare in equilibrio sul ponte, dove il vento soffia mordendo i sassi del torrente e i gabbiani risalgono lungo il greto con le loro urla stridule e nessun gatto alato a far loro compagnia – tento di seguire per gioco la linea retta dell’ombra del parapetto sul marciapiede ma sono spinta con forza in là, verso le macchine in coda come bestie incolonnate nella steppa.

Nei pressi dello stadio si ammassano i tifosi e i poliziotti all’ingresso della partita. È facile ritrovarsi presi tra le due fazioni, con un vago senso d’inquietudine, come se fluttuasse il sentore di un incidente imminente.

Non ho mai capito come si possa coscientemente desiderare di restare per novanta minuti buoni esposti alle intemperie solo per vedere (da lontano) dei tizi che corrono dietro a un pallone. Parlando antropologicamente, è una rappresentazione ludica dello scontro fra clan, ma trovo più esteticamente poetica la potenza  degli All Blacks, che Una Volta Erano Guerrrieri e ora sono fluidi giocatori del terzo tempo.

Non ho problemi ad attraversare l’alienamento alogeno del tunnel che va dal centro alla mia strana prima periferia, eppure ferma tra un drappello di ultrà e una camionetta delle Forze del Disordine, non so bene di chi avere più paura: da un lato gridano invettive contro l’altra squadra – che forse vincerà o forse no, poco importa – dall’altro un gruppetto di omini Playmobil sta in posa in attesa dei colleghi – una mano sul pacco, una mano sul mitra, un occasionale controllata al tonfa lungo e minacciosamente fallico.

Il semaforo diventa verde, conto le strisce sull’asfalto come le righe di una partitura da imparare a memoria e divento un punto, una nota gregoriana che vibra e si spegne, una fiammella smorzata.

E distinguo già il mio quartiere: la sobria eleganza dei palazzi, la falsa allegria dell’insegna floreale del supermercato con la fila di taxi addormentati.

lunedì 19 novembre 2012

CHANGES The smell of a Little Mermaid

Camminando si notano i sottili cambiamenti della stagione che scivola via: gli abiti pesanti che prendono il posto di quelli leggeri nelle vetrine e la vite americana, che fino a ieri era coperta di rosso dorato, oggi è un insieme sfilacciato e spettrale di tendini vegetali fitti e scuri.


E intanto gli operai – tutti senza casco di protezione – hanno finalmente aperto un varco che passa vicinissimo all’ingresso di una futura stazione della metropolitana. La promessa di quell’utopia tangibile dà un nuovo profumo all’aria di novembre, come il primo regalo di Natale, già incartato con un bel fiocco scarlatto.

Peccato che tra poco sarà quasi impossibile continuare a spostarsi a piedi. Nonostante le temperature miti l’inverno se ne sta acquattato da qualche parte aspettando di sorprenderci alle spalle, scoperti e vestiti di cotone. Per adesso, comunque, non mi dispiace affrontare la strada lucida di una pioggia che non si è vista, pronosticata soltanto dai cartelloni allarmistici della protezione civile. Non apro nemmeno l’ombrello per evitare le timide gocce che cadono a sprazzi, senza vento. Questo non si può chiamare temporale.

Forse il Boss mi riporterà a casa in macchina – vago disagio dentro un bozzolo di radica manageriale, domande che cadono nel buio dei container del porto, a metà tra la curiosità e l’interesse semi-professionale di un uomo che, con uno scarto impercettibile tra le due cose, è passato dalla scienza all’arte. Il passaggio mi farà risparmiare una mezzora sulla mia tabella di marcia fin troppo serrata, e stempererà la convinzione spiacevole di non essere riuscita a concludere niente.



Venerdì sono arrivata a casa in tempo per leggere qualche pagina prima di cena. Sdraiata su un fianco, con il viso a pochi centimetri dalle dita, sentivo l’odore metallico del mio anellino in finto-argento e scorrevo distrattamente le righe mentre il mio cervello elaborava la remota possibilità di addormentarsi in un orario non convenzionale. Avevo voglia di spegnere la luce che mi feriva gli occhi come una lampada da interrogatorio a basso costo. Non volevo pensare più a nulla per una ventina di minuti, mentre il tanto atteso temporale si trasformava in puro fragore contro il vetro della finestra e l’acqua cominciava già a filtrare pigramente sul pavimento del salotto impregnando di “cane-bagnato” il tappeto incastrato sotto il divano – impiegherà giorni ad asciugare, spandendo un lezzo di muffa in tutte le stanze: dovevo ricordare di aprire le imposte appena fossero ricomparsi il sole e l’azzurro.



Bizzarro come le recenti pazzie metereologi che dello scioglimento globale mascherino, in un secondo, la catastrofe con irragionevoli tepori primaverili!



La sveglia sarebbe suonata alle 21.54 per ricordarmi di lavarmi e mettermi il pigiama, per poi preparare tutto il necessario sul tavolino del soggiorno e mangiare di fronte al computer. Mi piace la sensazione di pulito del passarsi la spugna bagnata sul corpo e spruzzare il deodorante sulla pelle umida: Nivea Pearl & Beauty.

«… Che poi che gusto dovrebbero avere le perle?» Il tono di Sylvia era stato ironico, in un lontano giorno di primavera «Al limite sapranno di pesce, no?»

«O di sirena»

Ripenso al passato cercando nello specchio i contorni bluastri di un’ecchimosi spontanea, marchio sanguigno della mia pretesa di nobiltà. Una volta erano più frequenti, in una scala di gradazioni dal verde al nero e ritorno, ma stasera non se ne trovano sull’incerta pienezza di forme che non voglio riconoscere. Non devo giustificare qualche violenza con strane ascendenze da una stirpe acquatica, nessuna sorellina-anemone può riempire il vuoto iperbarico del mio respiro monocorde.

È meglio non riflettere e rifugiarsi nel conforto del sapone idratante, nella famigliarità delle lenzuola disfatte che ormai hanno assunto la piega delle mie curve inesistenti (o troppo evidenti?). Emozioni private accompagnate dal battito del mio cuore di giada – lento e irretito da laccetti di cuoio brunito: a volte desidero che qualcuno entri di soppiatto, volando sulla confusione di roba sparsa per terra, e mi carezzi la testa. Il lunedì, il corpo di Cassy conserva ancora una nota dolce di crema al torroncino, diversa eppure così simile al bouquet di mandorle amare che nasce dai ricci di Ortensia, ogni volta che lei si avvicina per salutarmi sulle scale, all’imbrunire.

http://youtu.be/xMQ0Ryy01yE

martedì 13 novembre 2012

TOKIDOKI














Simone Legno, in arte Tokidoki è il creatore di uno dei brand più apprezzati degli ultimi anni ed è entrato di diritto nell’empireo della cosiddetta “arte colta” sotto l’etichetta generica di “Pop Surrealism” o “Pervasive Art”, che ha tra i suoi capofila nomi come Gary Baseman e Ray Ceaser, ed è sbarcato alla Peggy Guggenheim Foundation di Venezia, che gli ha commissionato una mascotte carina per il museo. I personaggini firmati Tokidoki sono rassicuranti e conosciuti in tutto il mondo e persino in Giappone, patria spirituale di Simone, tanto che la Yamaha lo ha invitato a seguire Valentino Rossi nei giorni del Gran Premio. Le forme tondeggianti piacciono a un pubblico davvero eterogeneo, che va dai bambini ai pugili, e anche le celebrità hanno le hanno apprezzate, accostandosi spontaneamente al marchio e facendo poi nascere una collaborazione per le diverse linee di merchandising di gruppi musicali, attori e calciatori famosi (anche se sono sorte delle controversie legali con grandi aziende che hanno utilizzato le immagini senza licenza). L’avventura è cominciata sul web nel 2002, grazie a un sito nel quale il designer si metteva completamente in gioco (da qui il suo nickname, che significa “Qualche volta”, perché “qualche volta è possibile emergere”). E il sogno diventa realtà: in due anni il blog interattivo, che utilizzava un sistema innovativo di animazione, registra 17mila contatti al giorno. Questa notorietà virtuale apre la strada al passo successivo, cioè creare una società strutturata con due partner americani e partire per Los Angeles, dove si è inserito in una rete di conoscenze ramificate. In Italia ritrova volentieri le proprie radici, ma spiega che è troppo difficile affermarsi, per colpa della burocrazia, dei circuiti di raccomandazione e della scarsa considerazione istituzionale per i prodotti culturali: un periodo di formazione all’estero (negli U.S.A. o nel Sol Levante, dove vige il principio di meritocrazia) è necessario per la crescita artistica e intellettuale.

Ispirandosi al kawaii nipponico, Tokidoki cerca di sviluppare un proprio linguaggio originale, disegnando soggetti con una personalità e una storia: alcuni vengono continuamente rilanciati e reinventati, altri sono stati abbandonati nel corso del tempo. l’attitudine di questo ragazzo romano, si discosta sia dalla visione disneyana sia dalle procedure seriali del superflat: se Takeshi Murakami lavora con un numero limitato di vettori riproducibili e con uno staff di assistenti. Legno vuole ancora controllare ogni momento della creazione per imprimere un aspetto personale a ciascun nuovo character e ne cura l’estetica, con l’aiuto tecnico di un team. Nonostante questo sforzo per creare un universo coerente, raramente questi esserini lasciano l’universo del chara per evolversi in qualcosa di più complesso: esistono delle animazioni a livello sperimentale ma si tratta di operazioni minime e marginali perché, secondo Simone, dando movimento e soprattutto voce alle immagini, si rischia di rovinarne la magia, com’è avvenuto ad esempio con Hello Kitty. E anche il fumetto, pur restando bidimensionale, non renderebbe giustizia allo stile tipico di Tokidoki, che in genere esula dalla realtà e dalle difficoltà di una trama schematizzata. Il reportage delle giornate giapponesi del GP rappresenta un’interessante esperienza isolata, una narrazione veritiera vista attraverso il filtro del super-deformed e la collaborazione con la Marvel per una serie di pupazzetti degli eroi più noti, è probabilmente il lavoro che più ha avvicinato Tokidoki al variegato cosmo della grafica a vignette. Il mercato di punta resta quindi quello dei toys, anche se negli Stati Uniti il settore è in lento declino, forse per via della crisi o più semplicemente per il naturale alternarsi delle mode, e si stanno esplorando canali alternativi di distribuzione, lontani da quelli tradizionali.

venerdì 9 novembre 2012

ANGELUS



L’Angelus 1857-1859 Olio su tela Cm 55,5 x 66. L’Angelus il cui titolo iniziale era “Preghiera per il raccolto di patate”è conservato al Musée d’Orsay di Parigi.

Umile, è la parola giusta per definire questa immagime rappresentata nel quadro. I colori bruni primeggiano sulla tela colorando terra e abiti, imbrunando anche l’aria in un paesaggio quasi privo di lussureggiante vegetazione e l’assoluta mancanza di alberi, sottolinea ancora di più la durezza della natura. La forza dell’umiltà viene tramessa dalle due figure di contadini poste al centro del quadro a capo chino e intenti a pregare. Un uomo e una donna vestiti di abiti poveri, lasciato temporaneamente il lavoro di raccolta di patate, paiono udire in lontananza un suono di campane e a tale suono mestamente si raccolgono in preghiera recitando il vespro ( le preghere del tramonto). Anche di attrezzi è povera la scena: un cesto, una forca ed una carriola sono presenti vicino alle due figure colme di devozione e semplicità. Che sia l’ora del tramonto possimamo dedurlo da alcuni particolari che a prima vista sfuggono all’osservatore. Ad una analisi più attenta possiamo notare che il cielo non è nudo ma alcuni uccelli in stormo, in alto nel quadro, volano in una determinata direzione istintivamente scelta per passare la notte in qualche radura. I colori che sfumano in tenue arancione nel cielo e l’aria bruna tipica del tardo pomeriggio li colgono attardati e ancora intenti al lavoro com’era d’uso in quel mondo, quando in lontananza, un suono di campane proveniente dalla chiesetta di cui si scorge il campanile quasi indistinguibile, li avvisa che l’ora del vespro è arrivata. Propongo questo quadro perchè trovo in lui una forza evocatrice straordinaria di quel mondo di cui ho fatto appena in tempo ad udirne gli echi e odorarne la povertà. Solo i racconti di vecchi braccianti o anziane mondine possono delinearci meglio quel mondo contadino in cui oggi non vi è più traccia fortemente riconoscibile. Un’idea di quel mondo, del modo di vivere può darcela il Museo Agricolo di Albairate, dove attrezzi, suppellettili e storia ci lasciano immaginare quella che è stata la vita rurale. Di Jean-François Millet i testi riportano che non era osservante e che abbia voluto rappresentare questa scena agreste basandosi sui ricordi dell’infanzia in Normandia.