martedì 20 novembre 2012

COLD IS AN ANIMAL

Il freddo è un animale difficile da sconfiggere. Da un giorno all’altro la stessa gente che fino a ieri girava in maniche di camicia prenderà d’assalto i negozi cinesi in cerca di stufette elettriche e trapunte termiche. Necessità che nascono improvvise ogni anno, in congruamente inaspettate.


Cammino tenendo i pugni chiusi sotto il collo ampio del maglione. Stingo le spalle. Il segreto, forse, è mantenere in circolo il calore prodotto dal movimento. Se mi fermo, il vento mi taglia le orecchie sotto la lana morbida del cappello.

Ci sono anche angoli inondati di sole quasi tiepido, come la piazza, brillante per luce polverizzata dell’acqua che ricade convergendo nella vasca, o il marciapiede della farmacia, dove finisce il budello tortuoso del borgo. Messaggi che lampeggiano di verde / blu / verde-verde: OMOGENEIZZATI IN OFFERTA – MISURATORE DI PRESSIONE A 29.90… Segue l’ora che segna il ritmo dei passi. Ho i miei punti di riferimento sparsi sul percorso: l’orologio della stazione (ci vogliono quaranta minuti), il display attaccato sulla facciata vicino alla tabaccheria (ancora venti minuti). Mi affretto, il respiro diventa quasi affanno di fiato concentrato. Una campana, da qualche parte batte sette rintocchi e mezzo e diventa indispensabile arrivare a casa presto.



Presto (Riverbero della mia anima che già al primo eco ha il sapore della ripetizione).

Per preparare le recensioni di questo mese mi sono data una regola che ottimizza i tempi: tutte le andate ruggiscono nel motore un po’ vintage di un Seattle Sond nostalgico e tutti i ritorni sono ovattati di testi islandesi piacevolmente bright pop.



Avrei voluto entrare un attimo da Tiger, con quel suo confortante odore di grande magazzino scandinavo e la sua lieta atmosfera precocemente natalizia. Devo iniziare a cercare dei regali (piccole cose, gadget, decorazioni di ceramica e angioletti con i capelli di paglia e le ali di stoffa).

Chissà se le vie di Copenhagen sono piene dello stesso profumo di fiaba organizzata? Lo chiederò a Chris nella prossima mail.

Da quando si è trasferito ci scriviamo spesso.

Se sei circondato da un perenne biancore o da una perenne tenebra, ti abitui a dormire quando hai sonno, senza guardare il colore del cielo. Ti abitui a convivere con i Mumin – mansuete creature ippo-Troll – nascosti nei boschi di conifere subito oltre il confine di candide città da cartolina. O almeno, io immagino che sia così. Ma penso anche alle micro-punture della neve che ti gela le mani e il naso, e alla follia di andare in bicicletta con dieci gradi sotto zero.

La mia è una mite città di mare, però non è facile restare in equilibrio sul ponte, dove il vento soffia mordendo i sassi del torrente e i gabbiani risalgono lungo il greto con le loro urla stridule e nessun gatto alato a far loro compagnia – tento di seguire per gioco la linea retta dell’ombra del parapetto sul marciapiede ma sono spinta con forza in là, verso le macchine in coda come bestie incolonnate nella steppa.

Nei pressi dello stadio si ammassano i tifosi e i poliziotti all’ingresso della partita. È facile ritrovarsi presi tra le due fazioni, con un vago senso d’inquietudine, come se fluttuasse il sentore di un incidente imminente.

Non ho mai capito come si possa coscientemente desiderare di restare per novanta minuti buoni esposti alle intemperie solo per vedere (da lontano) dei tizi che corrono dietro a un pallone. Parlando antropologicamente, è una rappresentazione ludica dello scontro fra clan, ma trovo più esteticamente poetica la potenza  degli All Blacks, che Una Volta Erano Guerrrieri e ora sono fluidi giocatori del terzo tempo.

Non ho problemi ad attraversare l’alienamento alogeno del tunnel che va dal centro alla mia strana prima periferia, eppure ferma tra un drappello di ultrà e una camionetta delle Forze del Disordine, non so bene di chi avere più paura: da un lato gridano invettive contro l’altra squadra – che forse vincerà o forse no, poco importa – dall’altro un gruppetto di omini Playmobil sta in posa in attesa dei colleghi – una mano sul pacco, una mano sul mitra, un occasionale controllata al tonfa lungo e minacciosamente fallico.

Il semaforo diventa verde, conto le strisce sull’asfalto come le righe di una partitura da imparare a memoria e divento un punto, una nota gregoriana che vibra e si spegne, una fiammella smorzata.

E distinguo già il mio quartiere: la sobria eleganza dei palazzi, la falsa allegria dell’insegna floreale del supermercato con la fila di taxi addormentati.

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