mercoledì 22 febbraio 2012

VIRTUAL SUICIDE

Considerazioni sull’incontro Si può vivere senza Facebook? (21/02/12)


Ha inizio la fase due dell’esperimento: il blogger genovese Adriano Casissa si “suicida” in diretta tentando di cancellare i suoi dati da Facebook (solo per scoprire che l’operazione di totale cancellazione dell’account non è possibile!) e dà il via a una serie d’incontri-laboratorio sulla connettività sociale. “Non è un atto ideologico” – dice – ma si sa che qualsiasi discorso che sia anche solo minimamente incentrato sull’Uomo assume inevitabili connotazioni politiche, specie se si sta discutendo di un mezzo tanto rivoluzionario per l’antropopoiesi contemporanea. Nell’antica Grecia Platone si scagliava contro la scrittura, colpevole d’indebolire le menti (ma lui stesso scriveva); qualche anno fa Giovanni Sartori parlava con scetticismo di un nuovo “homo videns” inebetito davanti a uno schermo e incapace di ragionare; oggi si pensa che Facebook e ancor di più Twitter, costringendo alla brevità, danneggino la qualità dell’informazione facendo regredire gli utenti all’epoca del “pensierino delle elementari”. L’appiattimento cerebrale è un rischio che accompagna ogni innovazione tecnologica dell’espressione, ma il mezzo in sé non va demonizzato. È vero che le società, esposte a un numero crescente di stimoli, stanno trasformando la cultura in un gigantesco database al quale attingere per confezionare narrazioni superficiali, basate sulle icone preconfezionate dall’industria dei consumi, ma non concordo con il filosofo Hiroki Azuma quando tira in ballo il famoso “ delle Grandi Narrazioni”; credo invece che se da un lato esiste tantissimo (troppo) materiale prestampato secondo schemi rassicuranti e conosciuti, c’è anche una buona fetta d’individui che costruiscono attivamente le loro forme d’espressione, ricombinando in maniera creativa gli input esterni; le idee non sono morte, semplicemente viaggiano per canali diversi e stratificati, partendo dal basso e rimanendo in un sottobosco che forse raramente riesce ad andare al di là dei gruppi di pressione, ma che comunque sta assumendo sempre più peso nel discorso identitario delle comunità. Bisognerebbe cogliere l’allarme lanciato da Tullio di Mauro. In Italia la situazione dell’educazione è tragica: più del 30% degli studenti abbandona la scuola prima del diploma, il 38% della popolazione in età lavorativa ricade in una cupa condizione di analfabetismo e il 41% delle persone non usa internet. Chi naviga, poi, lo fa in maniera del tutto artigianale, creando una pericolosa equazione tra il web e il social network. In questo modo la circolazione di contenuti e notizie appare sempre più personalizzata ma è in realtà gestita e controllata da un’oligarchia che potenzialmente avrebbe la stessa forza inquietante del team di cattivi dei comics statunitensi: un manipolo di signori che potrebbero conquistare il mondo decidendo arbitrariamente – secondo i loro profitti privati – la velocità dei bit e dei dati che vagano nello spazio multimediale e pilotando la forma mentis dei fruitori della rete. Da tempo ormai i principali motori di ricerca funzionano con un sofisticato intreccio di filtri che seleziona le preferenze del pubblico, mostrando non i contenuti effettivamente disponibili, ma quelli che si suppone siano d’interesse primario. Non si tratta solo dello strapotere di Mark Zuckerberg – amministratore delegato, presidente fondatore e maggior azionista di Facebook – in grado di fagocitare e manipolare le coordinate personali di milioni di persone in tutto il mondo, ma anche di una ristretta cerchia d’imprenditori che agiscono in un’ombra più discreta ma comunque inquietante, gestendo i server di telefonia e comunicazione.
Guido Scorza è approdato al Diritto Informatico passando attraverso la lente della Filosofia del Diritto e propone la vera sfida di questo millennio in perenne costruzione: occorre ripensare l’intero sistema educativo, troppo antiquato e lontano dalle esigenze dei giovani, e forgiare nuovi modelli di comportamento civico. Sarebbe una campagna massiccia, importante e capillare che dovrebbe creare cittadini consapevoli e aiutare il senso critico a livello generale. È pura utopia? Non dimentichiamo che il nostro è un Paese che è stato flagellato per vent’anni dall’anomalia di un conflitto d’interessi permesso e avvallato da un anti-trust dormiente e che nell’opinione comune forse lo Stato è sempre stato una pallida presenza in filigrana, totalmente scollata dall’esperienza quotidiana. Casissa non avrà fatto un’azione politica ma il valore metaforico di questo suicidio-cancellazione risuona come quello – più fisico e materiale – del seppuku di Yukio Mishima nel 1970. L’intellettuale giapponese era pazzo? Desiderava spasmodicamente l’ammirazione della folla? Quel che pare certo è che la sua fu una plateale dimostrazione di protesta contro un governo che stava perdendo credito e credibilità e che, svuotato di contenuti, aveva smesso di rispondere alle necessità reali. Ora questo sfasamento si gioca sul piano virtuale: manca una rappresentanza sostanziale e simbolica dei singoli, delle collettività locali e di quelle globali che si formano a partire da un tessuto invisibile ma si concretizzano in nuovi soggetti che non si possono più ignorare. È quindi naturale che una protesta contro l’attuale situazione debba avere in primo luogo risonanza mediatica per rispecchiare e dare un nome al disagio strisciante, ma non può essere considerata una soluzione finale al problema del cosiddetto “diritto all’oblio”; d’altra parte Casissa un blogger – ultima evoluzione del comunicatore – e diceva bene Cechov: il compito di uno scrittore è quello di porre domande non di fornire risposte.

martedì 14 febbraio 2012

Band of Skulls Sweet Sour (Vagrant)


Dopo il sorprendente esordio nel 2009 con Baby Darling Doll Face Honey e l’EP Friends del 2010, i Band of Skulls tornano con un album completo e maturo, più intimo e raccolto ma che non dimentica la carica incendiaria del buon garage. La voce di Emma Richardson è morbida e avvolgente. Il potente tappeto ritmico di Matthew Hayward incede con un timbro cupo, quasi stoner e sabbathiano nella title track, trascinata dal riff vibrato di Russell Marsden. Il trio inglese ci regala piccole gemme zeppeliniane (sempre Sweet Sour), s’inoltra in radure di tranquillità che confinano con Woods delle Sleater- Kinney e marcia con la potenza sferragliante del rock (Devil Takes Care of His Own); costruisce minuscole perle melodiche che potrebbero essere interpretate da PJ Harvey (Lay my Head down; Navigate) o diventa scanzonato come un Josh Homme di buon umore (You’re not Pretty but You Got it Going on), per poi scivolare in suite noise alla Sonic Youth (Close to Nowhere).

I Band of Skulls si confermano come un ottimo gruppo da club, capace di mescolare atmosfere intime e fumose a passaggi sonori densi e grezzi. Ricordo ancora il loro concerto di due anni fa a Milano e il modo in cui avevano catturato il pubblico infreddolito del Rocket.
Il video di Devil Takes Care of His Own è la riprova di quest’impressione: in uno studio televisivo giapponese, pochi fan si riuniscono compostamente per sentire la canzone ma improvvisamente i compassati tecnici nipponici vengono trascinati dal pezzo e cominciano a picchiarsi con un grande sfoggio di arti marziali.

Ancora una volta Emma cura un artwork intrigante e inquietante. La copertina dell’album, una strana amalgama rossa e bianca che potrebbe ricordare un fiore o il modello anatomico di un bacino, non sfigurerebbe in un dipinto di Ray Caesar. Lo stesso vale per i primi due singoli estratti dal disco: in questo caso si tratta dell’ingrandimento di articolari di un insieme più ampio che richiama una composizione di petali avvizziti e contorti (Bruises) e una forma astratta (Devil takes care of his own).



Trowate la versione breve d questa recensione su www.discoclub65.it !

sabato 4 febbraio 2012

AnoHana


Aspettandomi una serie dal tema quotidiano, Ano Hana (Quel Fiore) è stata una piacevole sorpresa. È la storia delicata di un gruppo di amici che si ritrova per esaudire il desiderio di Menma una di loro. Lei non è cresciuta, è un fantasma, un’allucinazione che compare in una giornata d’estate davanti a Jintan e lo sostiene nel suo difficile percorso di crescita emotiva. Il ragazzo, infatti, aveva smesso di andare a scuola e aveva tagliato i ponti con il resto del mondo, chiudendosi in uno spazio di tristezza e di colpevolizzazione per la morte accidentale dell’amica. Anche gli altri sono stati segnati dal trauma, ognuno a suo modo, ognuno creando una personale corazza protettiva ma nessuno è davvero cambiato: la comparsa di Menma fa riemergere l’entusiasmo e la forza dell’amicizia e fa sbocciare gli amori che all’inizio erano semplici cotte tra bambini. Tutti insieme sono traghettati verso l’età adulta, confrontandosi col passato e con modelli diversi di maturità (il padre di Jinta – sereno e rilassato – contrapposto alla madre di Meiko – depressa e frustrata, che solo alla fine avrà un po’ di pace). Ogni personaggio rivela a poco a poco un microcosmo di sfaccettature psicologiche, in un mosaico realistico molto ben delineato e mai scontato.
Non manca quel pizzico di mistero soprannaturale che contribuisce a creare un’atmosfera che è allo stesso tempo comune e fantastica: lo spettatore viene coinvolto nella storia suo malgrado e si cala completamente nella magia del patto narrativo.
Il disegno forse si potrebbe classificare come “shôjo”, ma in questo caso linee morbide e occhioni tondi sono espedienti per ricordare la tenerezza dell’infanzia e la cura infinitesimale per i dettagli è perfetta per l’ambientazione in una cittadina periferica, ancora vicina alla natura e ai suoi segreti.

LE MAPPE DEI MIEI SOGNI


Può la scienza diventare arte visiva del racconto e aiutarci a descrivere il mondo intero? E la narrativa non è forse una forma di misurazione soggettiva dello spazio e del tempo? Un’entomologa può inseguire per anni una chimera o dedicarsi a scrivere un libro; un rude uomo di campagna, che modella se stesso sul mito personale del cowboy americano, può rivelarsi un filosofo tenero e paterno. Non perdersi nella vertigine della realtà è una sfida alla quale Tecumseh Sparrow Spivet risponde con l’eleganza delle sue mappe, ma non è facile uscire dal buio della caverna platonica per avventurarsi nell’universo degli adulti. Lasciarsi alle spalle l’infanzia significa allontanarsi dal guscio protettivo della famiglia, mettere in discussione i fondamenti stessi dell’esistenza. Nel corso del viaggio ci si trova davanti a molte scelte, ogni certezza deve essere abbandonata. TS è un dodicenne (a volte poco credibile) ma ha uno sguardo curioso di un passero e il coraggio e la fierezza di un guerriero pellerossa. Per un ragazzino cresciuto nella calma di un ranch del Montana, il miraggio di Washington, con le sue luci e i suoi musei, è come un sogno strappato da una rivista, finché una telefonata non lo convince superare i confini e raggiungere l’ignoto. Il suo cammino avventuroso – perché ogni bambino trasforma le difficoltà in avventura – lo costringe a confrontarsi con i fantasmi del passato. A bordo del treno che lo porta da Ovest a Est degli Stati Uniti, s’interroga sulla vera storia dei suoi avi e dei suoi genitori; sulle proprie radici e sul misterioso rapporto tra razionalità sentimenti. Lontano dal West delle frontiere da scoprire, si estende un in territorio insidioso, dove le persone dotate di senso critico devono nascondersi,come i fuggiaschi di Bradbury.
Disegni e note a margine configurano il romanzo come un incredibile ipertesto cartaceo che, combinando la precisione illusoria delle carte e uno stile immediato e pulito à la Mark Twain, richiama i carnet de voyage e la graphic novel contemporanea; e l’esperienza si espande in senso davvero multimediale, comprendendo un sito internet dall’aspetto vintage e un film che vedrà la regia di Jean-Pierre Jeunet.