Considerazioni sull’incontro Si può vivere senza Facebook? (21/02/12)
Ha inizio la fase due dell’esperimento: il blogger genovese Adriano Casissa si “suicida” in diretta tentando di cancellare i suoi dati da Facebook (solo per scoprire che l’operazione di totale cancellazione dell’account non è possibile!) e dà il via a una serie d’incontri-laboratorio sulla connettività sociale. “Non è un atto ideologico” – dice – ma si sa che qualsiasi discorso che sia anche solo minimamente incentrato sull’Uomo assume inevitabili connotazioni politiche, specie se si sta discutendo di un mezzo tanto rivoluzionario per l’antropopoiesi contemporanea. Nell’antica Grecia Platone si scagliava contro la scrittura, colpevole d’indebolire le menti (ma lui stesso scriveva); qualche anno fa Giovanni Sartori parlava con scetticismo di un nuovo “homo videns” inebetito davanti a uno schermo e incapace di ragionare; oggi si pensa che Facebook e ancor di più Twitter, costringendo alla brevità, danneggino la qualità dell’informazione facendo regredire gli utenti all’epoca del “pensierino delle elementari”. L’appiattimento cerebrale è un rischio che accompagna ogni innovazione tecnologica dell’espressione, ma il mezzo in sé non va demonizzato. È vero che le società, esposte a un numero crescente di stimoli, stanno trasformando la cultura in un gigantesco database al quale attingere per confezionare narrazioni superficiali, basate sulle icone preconfezionate dall’industria dei consumi, ma non concordo con il filosofo Hiroki Azuma quando tira in ballo il famoso “ delle Grandi Narrazioni”; credo invece che se da un lato esiste tantissimo (troppo) materiale prestampato secondo schemi rassicuranti e conosciuti, c’è anche una buona fetta d’individui che costruiscono attivamente le loro forme d’espressione, ricombinando in maniera creativa gli input esterni; le idee non sono morte, semplicemente viaggiano per canali diversi e stratificati, partendo dal basso e rimanendo in un sottobosco che forse raramente riesce ad andare al di là dei gruppi di pressione, ma che comunque sta assumendo sempre più peso nel discorso identitario delle comunità. Bisognerebbe cogliere l’allarme lanciato da Tullio di Mauro. In Italia la situazione dell’educazione è tragica: più del 30% degli studenti abbandona la scuola prima del diploma, il 38% della popolazione in età lavorativa ricade in una cupa condizione di analfabetismo e il 41% delle persone non usa internet. Chi naviga, poi, lo fa in maniera del tutto artigianale, creando una pericolosa equazione tra il web e il social network. In questo modo la circolazione di contenuti e notizie appare sempre più personalizzata ma è in realtà gestita e controllata da un’oligarchia che potenzialmente avrebbe la stessa forza inquietante del team di cattivi dei comics statunitensi: un manipolo di signori che potrebbero conquistare il mondo decidendo arbitrariamente – secondo i loro profitti privati – la velocità dei bit e dei dati che vagano nello spazio multimediale e pilotando la forma mentis dei fruitori della rete. Da tempo ormai i principali motori di ricerca funzionano con un sofisticato intreccio di filtri che seleziona le preferenze del pubblico, mostrando non i contenuti effettivamente disponibili, ma quelli che si suppone siano d’interesse primario. Non si tratta solo dello strapotere di Mark Zuckerberg – amministratore delegato, presidente fondatore e maggior azionista di Facebook – in grado di fagocitare e manipolare le coordinate personali di milioni di persone in tutto il mondo, ma anche di una ristretta cerchia d’imprenditori che agiscono in un’ombra più discreta ma comunque inquietante, gestendo i server di telefonia e comunicazione.
Guido Scorza è approdato al Diritto Informatico passando attraverso la lente della Filosofia del Diritto e propone la vera sfida di questo millennio in perenne costruzione: occorre ripensare l’intero sistema educativo, troppo antiquato e lontano dalle esigenze dei giovani, e forgiare nuovi modelli di comportamento civico. Sarebbe una campagna massiccia, importante e capillare che dovrebbe creare cittadini consapevoli e aiutare il senso critico a livello generale. È pura utopia? Non dimentichiamo che il nostro è un Paese che è stato flagellato per vent’anni dall’anomalia di un conflitto d’interessi permesso e avvallato da un anti-trust dormiente e che nell’opinione comune forse lo Stato è sempre stato una pallida presenza in filigrana, totalmente scollata dall’esperienza quotidiana. Casissa non avrà fatto un’azione politica ma il valore metaforico di questo suicidio-cancellazione risuona come quello – più fisico e materiale – del seppuku di Yukio Mishima nel 1970. L’intellettuale giapponese era pazzo? Desiderava spasmodicamente l’ammirazione della folla? Quel che pare certo è che la sua fu una plateale dimostrazione di protesta contro un governo che stava perdendo credito e credibilità e che, svuotato di contenuti, aveva smesso di rispondere alle necessità reali. Ora questo sfasamento si gioca sul piano virtuale: manca una rappresentanza sostanziale e simbolica dei singoli, delle collettività locali e di quelle globali che si formano a partire da un tessuto invisibile ma si concretizzano in nuovi soggetti che non si possono più ignorare. È quindi naturale che una protesta contro l’attuale situazione debba avere in primo luogo risonanza mediatica per rispecchiare e dare un nome al disagio strisciante, ma non può essere considerata una soluzione finale al problema del cosiddetto “diritto all’oblio”; d’altra parte Casissa un blogger – ultima evoluzione del comunicatore – e diceva bene Cechov: il compito di uno scrittore è quello di porre domande non di fornire risposte.
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