martedì 19 aprile 2016

ZUKKOKE KNIGHT DON QUIJOTE E ALTRE RIELABORAZIONI GRAFICHE di DON QUIJOTE


Oggi parliamo di come Don Quijote è stato reinterpretato in sede grafica in diversi modi arrivando a interessare persino il Giappone, Paese nel quale ha riscosso un certo successo grazie a una concezione culturale dell’onore e dell’abnegazione verso l’imperatore che somiglia per certi versi a quella portata avanti nei romanzi cavallereschi. Inoltre è da notare come la situazione creatasi nel ‘600 in Giappone, con la dominazione Tokugawa, sia simile a quella della Spagna del Siglo de Oro con i samurai che, perduto il proprio posto nella società, vagavano nelle campagne in cerca di un padrone.

  “Zukkoke Knight Don Quijote” (“Don Quijote y los cuentos de La Mancha”) è un anime (cartone animato) del 1980 diretto da Kunihiro Yuyama.
 

Il protagonista è il cavaliere matto Don Quijote (zukkoke knight Don Quijote) che viaggia per la campagna spagnola insieme al suo fido scudiero Sancho e affronta mille pericoli, sempre cercando di conquistare l’amore della sua bella Dulcinea.

Nonostante l’impianto della trama appaia a grandi linee simile a quello originale, in realtà le differenze sono palesi fin dal primo episodio. Del libro di Cervantes restano intatti solo i personaggi e il loro gusto per l’avventura, ma non il significato profondamente filosofico che essa assumeva nel testo. Si perdono gli spunti dei capitoli ma se ne trovano altri che stranamente non compaiono nell’opera secentesca. Primo fra tutti spicca il tema del “malefico drago”, che compare come emblema nelle storie medievali europee. Nel primo episodio di questo anime ad esempio si conserva il famoso aneddoto del mulino a vento ma questo diventa un feroce dragone che minaccia la “principessa” Dulcinea. D’altra parte, nel libro “Chi ha paura dei draghi?” Chris Northrop e Jeff Stokeley[1] creano un moderno “Sir Pazzoide” che crede che la sua missione sia uccidere draghi e in questa strana avventura viene seguito dal giovane Wendell che si rifugia nella fantasia per sfuggire a una realtà difficile di emarginazione.


Perché questo spostamento tematico? È facile ricordare come i mostri nella cultura pop giapponese (kaijû) siano associati allo shock della distruzione subita durante la Seconda Guerra Mondiale, basti pensare a tutti i rifacimenti di Godzilla, la terribile bestia che attacca Tôkyô calpestando case e palazzi. Più semplice caratterizzare così il pericolo che non utilizzando i giganti, come invece avviene nel romanzo di Cervantes.
 
Solo recentemente i giganti sono entrati nell’immaginario collettivo grazie a un manga (con relativo anime) di grande successo: “L’attacco dei Giganti” scritto da Hajime Isayama (in Italia per Planet Manga Panini, in corso); ma qui l’impianto pare diverso: pur essendo creature spaventose che minacciano gli umani, i giganti rapprendano un’alterità ancora da indagare e sulla quale ci si pone delle domande. Chi è l’Altro? Esistono spiragli, briciole di differenza anche all’interno del nostro cuore?

 

Potrebbe essere uno slittamento relativista del focus cervantino, legato alla dicotomia interna tra buon senso comune e idealismo, ma questa visione più ampia era ancora al di là da venire nel 1980, all’epoca del primo boom degli anime giapponesi – la cosiddetta “prima invasione” – quando i prodotti di massa del Sol Levante conquistarono i mercati italiani ed europei.

Nell’Era Shôwa (1926-1989) vigeva ancora il motto “Raggiungere e Superare”, ossia prendere il meglio dall’Occidente per adattarlo alle esigenze nipponiche, migliorandolo. Le radici storiche del mostro Godzilla si trovano, infatti, in un film americano del 1934 ma la produzione giapponese fu una denuncia contro le atrocità della guerra e in particolare della distruzione dovuta all’uso di armi atomiche.


Così in “Zukkoke Knight Don Quijote” troviamo altri rimandi al pop, sia autoctono sia internazionale oltre che alla cultura “alta”. La maga che incontra il Cavaliere nel secondo episodio è chiaramente ripresa dalla Circe di Omero ma ha le fattezze e il costume di Wonder Woman, nata dalla matita di William Moulton Marston nel 1941 mentre tra gli accoliti del brigante Don Carlos – padre di Aldonza / Dulcinea – c’è un ladro che somiglia in tutto e per tutto a Capitan Harlock, il pirata dello spazio di Leiji Matsumoto.

Altra interessante attualizzazione dell’anime è il messaggero che ha il compito di dare le missioni alla ragazza. Si tratta diun  uccello-drago che inserisce il proprio corpo in una sorta di videoregistratore e mostra una videocassetta. È dunque qualcosa a metà tra i “Flintstones” di Hanna e Barbera (1960) e Azuma-mushi, il personaggio narrante di “C’era una volta … Pollon” di Hideo Azuma (1977-1982), il che sposta in modo incerto la collocazione temporale della storia.

Le citazioni, comunque, non vanno più in là del semplice omaggio scherzoso a Don Chisciotte, dato che l’anime deve mantenere il tono tipico del genere kodomo, cioè destinato ai bambini.  Sia per quanto riguarda Sancho che per Don Quijote i tratti sono così deformati da rasentare l’antopomorfismo animale ma restano le caratteristiche principali dei personaggi originali: l’allampanato cavaliere, in sella a un cavallo che è quasi uno scarabocchio à la Miró e il suo fido Sancho che, essendo un villico è tarchiato e quasi ursino. Nell’anime lo stesso discorso vale per la coppia Dulcinea / Gordito (Grassottello): mentre lei è una bellezza mozzafiato bionda con gli occhi azzurri e un grazioso mini-vestito rosa, il suo aiutante è tanto tozzo e scuro di carnagione e con un naso tanto camuso da non sembrare neppure umano.  Rimane poco della donzella amata da Don Quijote nell’opera di Cervantes. Qui lei è spregiudicata proprio come potrebbe esserlo la donna moderna. Pare trattarsi del primo rivolgimento di genere, ma l’anime di Yuyama conserva sempre gli aspetti infantili con uno schema narrativo che, attingendo dai personaggi del libro, introduce aspetti originali.

 

È il primo passo verso il deciso zoomorfismo di Zorori (2004), una volpe la cui aspirazione è diventare il “re delle birichinate”, costruire un magnifico castello e trovare una moglie bellissima. Alcuni aspetti possono essere ricollegati tanto a Don Quijote quanto a Zorro (Johnston McCulley, 1919): normalmente l’eroe indossa un abito tipico dell’Epoca Edo (1603-1868) ma quando compie le sue imprese ha un cappello, il mantello e la maschera neri del vendicatore californiano. Ecco quindi che, con il suo impianto picaresco da wandering story e le avventure ambientate in un Giappone alternativo, Mine Yoshizaki utilizza la stessa base costitutiva di “L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte de La Mancha” e aggiunge un elemento fondamentale: il castello, che nel testo di Cervantes restava sfumato, poco più di un’allucinazione tra le tante nelle fantasie di Don Quijote ma diventa una meta concreta per il più realista Sancho , quando il suo padrone gli promette di renderlo signore di un’isola.


 

In “Zukkoke Knight Don Quijote” si rimanda palesemente all’arte degli incastri di Cornelius Escher con le porte e le scale che si moltiplicano in prospettive perfettamente geometriche ma improponibili dal punto di vista gravitazionale.
 
Come fa notare Italo Calvino (“Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, Modadori, 2012, p. 108 e ss.) nella sua spiegazione dell’ “Orlando Furioso”, il maniero rappresenta il nodo di dissolvimento, ovvero il Nulla verso il quale tendono i personaggi, spazio circoscritto in se stesso eppure anche illimitato che riassume tutti i mondi possibili, come accadeva in senso metafisico con l’Aleph di Jorge Luis Borges. Quale può essere il corrispettivo nel testo originale di Cervantes Saaveda? Forse il ritorno forzato al paese natio e alla casa, dove i libri di cavalleria sono stati bruciati dalla nipote e dalla governante. In una maniera antitetica rispetto a Orlando che torna savio liberandosi dalle catene dell’amore (canto XXXIX) quando Astolfo torna in Africa con la boccetta del suo senno perduto, il gioco di Don Chisciotte finisce quando egli si vede costretto a rientrare in una realtà che non lascia spazio alle fantasie, sconfitto nell’ultima tenzone dal Cavaliere dalla Bianca Luna (in verità il baccelliere Sansone Carrasco, entrato nel ruolo con il proposito di rimandare l’amico tra i suoi cari).


 

In tutti questi esempi, adattamenti e rivisitazioni rimane immutata una domanda: perché la lettura rende pazzi? Non dovrebbe essere salvifica? In questo senso si apre per noi un interessante scenario che consente di unire idealmente le due dimensioni: quella letteraria e quella visiva; ovvero quali sono gli effetti della narrazione, intesa con il suo significato più ampio, sulla mente del pubblico fruitore? Se si pensa a “Chi ha paura dei draghi?” si intravede uno raggio di speranza nel quale l’immaginazione dà a Wendell il modo di crescere interpretando la realtà in chiave diversa, non ortodossa ma non sbagliata. L’allargamento dei punti di vista corrisponde alla nostra epoca, ossia essa è propria di un periodo in cui il lavoro autoriale è diventato in un certo senso sia globale sia strettamente individuale; viceversa il “Don Chisciotte” (1605-1615) appartiene a un momento storico in cui gli scrittori assolvevano anche una funzione morale. E così Cervantes redime il suo personaggio con una fine malinconica ma pedagogica, in una maniera simile a quella di Amleto (1600-1603) che esce dalla sua follia simulata per consumare una vendetta che lo ricolloca in un mondo cupo e tragico, un mondo in cui la morte occupa un posto centrale. In Shakespeare come in Cervantes, la recita ha un ruolo fondamentale su più piani di lettura: da un lato la finzione serve a svelare i meccanismi perversi della realtà; dall’altro ci si finge pazzi per creare un proprio mondo alternativo che ammetta tanto i giganti e  i più favolosi castelli, quanto i fantasmi, come metafora di un mondo altro.  Secondo la tesi di laurea di Cinzia Poli[2], tra la scienza e l’ignoranza esiste uno stato intermedio, ossia la doxa, l’opinione. È qui che si verifica non la frattura ma la fusione tra quotidiano e finzione che è alla base del gioco assoluto di Don Chisciotte, frutto di quel pensiero magico che Lévy-Bruhl parlando “dell’anima primitiva”[3]  individua nella mente umana, sia nel bambino sia nell’adulto. Analogamente i due personaggi di Don Chisciotte e Sancho Panza si pongono come antitesi complementari che convivono in un’unica visione del mondo, con lo stesso meccanismo che contrappone il cavaliere inesistente Agilulfo al suo scudiero Gurdulù e (Italo Calvino, 1959)[4].  Se il cavaliere che cerca di esistere inaugura il trucco del  “facciamo finta che …” Sancho personifica  quella che Jankélévitch definiva “coscienza ironica” e che, partendo dal buon senso illumina il valore morale delle invenzioni del suo padrone.[5] 

 

Molti sono stati i registi che hanno tentato di realizzare un’opera basata su Cervantes ma pochi  sono riusciti a portare a termine il film, dando così vita alla leggendaria “maledizione” che ha colpito nomi celebri come Orson Wells[6] e Terry Gilliam[7], che poi ci hanno lasciato preziosi documentari sul fallimento o pellicole che prendono solo spunto dalle avventure del cavaliere – come se l’impresa fosse un ostacolo insormontabile, un mulino a vento che converte i cineasti in cavalieri dalla triste figura. I rimandi che trasfigurano l’originale sono vari vanno da Mario Monicelli con il suo Brancaleone (1966) fino alla nuova versione a fumetti di Yukito con l’adattamento di Yushi Kawata, che propongono però due protagonisti più giovani e prestanti di quelli che tutti immaginavano.





 


D’altronde, dal punto di vista grafico, le rielaborazioni si sprecano e vanno da Picasso, Daumier e Dalí al nostro disegnatore Gipi che ha pensato un’immagine del hidalgo per la copertina del “Venerdì” di Repubblica del 20 gennaio 2015.
 

 

In“Paperino Don Chisciotte” si gioca sull’antropomorfismo e sulle buffe disavventure di un eroe particolarmente sfortunato. Invece,sia  nella creazione di Toni Pagot e Gino Gavioli per “Il Giornalino”(1994)  sia in “Zukkoke Knight Don Quijote” ci si mantiene sul limite della caricatura, volendo dare la piena possibilità di identificazione del lettore con il personaggio.

 

Gli esempi nipponici dunque s’inseriscono in un più ampio filone che riduce le avventure di Don Chisciotte a un racconto per i più piccoli e che trova su YouTube diversi esempi. Il canale QuixotedotTv riunisce varie avventure spiegate non in senso filosofico ma fiabesco, con uno stile grafico semplice e immediato, simile alla trasposizione dell’animazione giapponese.  Altro intento ha invece il disegnatore LAZ che pubblica le sue caricature sull’edizione digitale cubana di Joventud Rebelde: qui il cavaliere e Sancho Panza sono protagonisti di vignette che rispecchiano l’attualità.

D’altra parte, “Siamo tutti Don Chisciotte” scrive Gabriele Romagnoli su “Repubblica” del 7 febbraio 2016 ma c’è da chiedersi quanti davvero combattano ancora spinti dall’idealismo e quanti non siano piuttosto mossi dal bisogno di ritorno mediatico. Pochi sono gli esempi di “purezza” che si possono ritrovare nell’era della Fine delle Grandi Narrazioni, di cui parlava Jean-François Lyotard[8] e della supremazia dei “tecno-scapes” sugli “ideo-scapes”, per riprendere Arjun Appadurai[9] e “Don Quijote” è diventato il nome di una catena di megastore che conta 160 punti vendita in Giappone e 3 alle Hawaii, con un fatturato netto che nel 2010 era di 122 milioni di dollari.

Diverse figure nella Storia contemporanea ci rimandano al mito di Don Chisciotte: Ernesto Che Guevara e Julian Assange, che come il cavaliere de La Mancha, hanno fatto della libertà e della condivisione il loro vessillo esplorando nuove frontiere, reali o virtuali che fossero. E poi Muhammad Yunus, Premio Nobel del 2006 che ha sfidato il sistema delle banche mondiali con l’idea del microcredito[10], i ragazzi di Occupy Wall Street che hanno resistito alla Crisi con la loro voce che partiva dal basso e Serge Latouche, che da anni predica la dottrina della “Decrescita felice”. Come per l’eroe cervantino si ha l’impressione che le loro battaglie siano vane in un’epoca di giganti e che gli spazi da cercare siano chimerici quanto il fantastico universo oltre le stelle raggiunto su un cavallo volante – ma potrebbe essere una motocicletta, come nel caso del medico argentino liberatore di Cuba o del Sir Pazzoide  di Chris Northrop e Jeff Stokley.

 

Le trasposizioni moderne fanno pensare che anche i giovani d’oggi conservano un certo grado di donchisciottismo. Il sogno s’infrangerà contro le barriere della realtà – che a volte, però, concede qualche piccola vittoria – ma l’importante è continuare a perseverare senza abbandonare quell’utopia che consente di vivere.

 




[1]              Chris Northrop e Jeff Stokley: “Chi ha paura dei draghi?”(Panini Novellini, Modena, 2015).
[2] Cinzia Poli: “Pedro Calderón de la Barca: La vita è sognoInterpretazione morale e filosofica” (http://www.letteratour.it/tesine/A06caldeP01.asp.
[3] Lucien Lévy-Bruhl: “L’anima primitiva” (Bollati Boringhieri, Milano, 1990).
[4] Italo Calvino: “Il cavaliere inesistente” (Mondadori. Milano, 2000).
[5] Vladimir Jankélévitch: “L’Ironia” (Il Nuovo Melangolo, Genova, 2006). Citato da Antonio Tabucchi in “Caffè letterario di Repubblica 4.
[6] Orson Welles: “Don Quixote” (1992).
[7] Terry Gilliam: “Lost in La Mancha” (2003).
[8]              Jean-François Lyotard: “La condizione postmoderna” (Feltrinelli, Milano, 1981).
[9]                Arjun Appadurai: “Modernità in polvere” ( nuova edizione: Cortina Raffaello, Milano, 2012).
[10]             Muhammad Yunus: “Il banchiere dei poveri” (Feltrinelli, Milano, 2013).