Oggi parliamo di come Don Quijote è stato
reinterpretato in sede grafica in diversi modi arrivando a interessare persino
il Giappone, Paese nel quale ha riscosso un certo successo grazie a una
concezione culturale dell’onore e dell’abnegazione verso l’imperatore che
somiglia per certi versi a quella portata avanti nei romanzi cavallereschi.
Inoltre è da notare come la situazione creatasi nel ‘600 in Giappone, con la
dominazione Tokugawa, sia simile a quella della Spagna del Siglo de Oro con i
samurai che, perduto il proprio posto nella società, vagavano nelle campagne in
cerca di un padrone.
“Zukkoke
Knight Don Quijote” (“Don Quijote y los cuentos de La Mancha”) è un anime
(cartone animato) del 1980 diretto da Kunihiro Yuyama.
Il protagonista è il cavaliere matto
Don Quijote (zukkoke knight Don Quijote) che viaggia per la campagna spagnola
insieme al suo fido scudiero Sancho e affronta mille pericoli, sempre cercando
di conquistare l’amore della sua bella Dulcinea.
Nonostante l’impianto della trama
appaia a grandi linee simile a quello originale, in realtà le differenze sono
palesi fin dal primo episodio. Del libro di Cervantes restano intatti solo i
personaggi e il loro gusto per l’avventura, ma non il significato profondamente
filosofico che essa assumeva nel testo. Si perdono gli spunti dei capitoli ma
se ne trovano altri che stranamente non compaiono nell’opera secentesca. Primo
fra tutti spicca il tema del “malefico drago”, che compare come emblema nelle
storie medievali europee. Nel primo episodio di questo anime ad esempio si
conserva il famoso aneddoto del mulino a vento ma questo diventa un feroce
dragone che minaccia la “principessa” Dulcinea. D’altra parte, nel libro “Chi
ha paura dei draghi?” Chris Northrop e Jeff Stokeley[1] creano un moderno “Sir Pazzoide” che
crede che la sua missione sia uccidere draghi e in questa strana avventura
viene seguito dal giovane Wendell che si rifugia nella fantasia per sfuggire a
una realtà difficile di emarginazione.
D’altronde, dal punto di vista
grafico, le rielaborazioni si sprecano e vanno da Picasso, Daumier e Dalí al
nostro disegnatore Gipi che ha pensato un’immagine del hidalgo per la copertina
del “Venerdì” di Repubblica del 20 gennaio 2015.
Perché questo spostamento tematico? È
facile ricordare come i mostri nella cultura pop giapponese (kaijû) siano associati allo shock della
distruzione subita durante la Seconda Guerra Mondiale, basti pensare a tutti i
rifacimenti di Godzilla, la terribile bestia che attacca Tôkyô calpestando case
e palazzi. Più semplice caratterizzare così il pericolo che non utilizzando i
giganti, come invece avviene nel romanzo di Cervantes.
Solo recentemente i
giganti sono entrati nell’immaginario collettivo grazie a un manga (con
relativo anime) di grande successo: “L’attacco dei Giganti” scritto da Hajime
Isayama (in Italia per Planet Manga Panini, in corso); ma qui l’impianto pare
diverso: pur essendo creature spaventose che minacciano gli umani, i giganti
rapprendano un’alterità ancora da indagare e sulla quale ci si pone delle
domande. Chi è l’Altro? Esistono spiragli, briciole di differenza anche
all’interno del nostro cuore?
Potrebbe essere uno slittamento relativista
del focus cervantino, legato alla dicotomia interna tra buon senso comune e
idealismo, ma questa visione più ampia era ancora al di là da venire nel 1980,
all’epoca del primo boom degli anime giapponesi – la cosiddetta “prima
invasione” – quando i prodotti di massa del Sol Levante conquistarono i mercati
italiani ed europei.
Nell’Era Shôwa (1926-1989) vigeva
ancora il motto “Raggiungere e Superare”, ossia prendere il meglio
dall’Occidente per adattarlo alle esigenze nipponiche, migliorandolo. Le radici
storiche del mostro Godzilla si trovano, infatti, in un film americano del 1934
ma la produzione giapponese fu una denuncia contro le atrocità della guerra e
in particolare della distruzione dovuta all’uso di armi atomiche.
Così in “Zukkoke Knight Don Quijote” troviamo
altri rimandi al pop, sia autoctono sia internazionale oltre che alla cultura
“alta”. La maga che incontra il Cavaliere nel secondo episodio è chiaramente
ripresa dalla Circe di Omero ma ha le fattezze e il costume di Wonder Woman,
nata dalla matita di William Moulton
Marston nel 1941 mentre tra gli accoliti del brigante Don Carlos – padre
di Aldonza / Dulcinea – c’è un ladro che somiglia in tutto e per tutto a
Capitan Harlock, il pirata dello spazio di Leiji Matsumoto.
Altra interessante attualizzazione
dell’anime è il messaggero che ha il compito di dare le missioni alla ragazza.
Si tratta diun uccello-drago che
inserisce il proprio corpo in una sorta di videoregistratore e mostra una
videocassetta. È dunque qualcosa a metà tra i “Flintstones” di Hanna e Barbera
(1960) e Azuma-mushi, il personaggio narrante di “C’era una volta … Pollon” di
Hideo Azuma (1977-1982), il che sposta in modo incerto la collocazione
temporale della storia.
Le citazioni, comunque, non vanno più
in là del semplice omaggio scherzoso a Don Chisciotte, dato che l’anime deve
mantenere il tono tipico del genere kodomo,
cioè destinato ai bambini. Sia per
quanto riguarda Sancho che per Don Quijote i tratti sono così deformati da
rasentare l’antopomorfismo animale ma restano le caratteristiche principali dei
personaggi originali: l’allampanato cavaliere, in sella a un cavallo che è
quasi uno scarabocchio à la Miró e il suo fido Sancho che, essendo un villico è
tarchiato e quasi ursino. Nell’anime lo stesso discorso vale per la coppia
Dulcinea / Gordito (Grassottello): mentre lei è una bellezza mozzafiato bionda
con gli occhi azzurri e un grazioso mini-vestito rosa, il suo aiutante è tanto
tozzo e scuro di carnagione e con un naso tanto camuso da non sembrare neppure
umano. Rimane poco della donzella amata
da Don Quijote nell’opera di Cervantes. Qui lei è spregiudicata proprio come
potrebbe esserlo la donna moderna. Pare trattarsi del primo rivolgimento di
genere, ma l’anime di Yuyama conserva sempre gli aspetti infantili con uno
schema narrativo che, attingendo dai personaggi del libro, introduce aspetti
originali.
È il primo passo verso il deciso
zoomorfismo di Zorori (2004), una volpe la cui aspirazione è diventare il “re
delle birichinate”, costruire un magnifico castello e trovare una moglie
bellissima. Alcuni aspetti possono essere ricollegati tanto a Don Quijote quanto
a Zorro (Johnston
McCulley, 1919): normalmente l’eroe indossa un abito tipico dell’Epoca Edo (1603-1868)
ma quando compie le sue imprese ha un cappello, il mantello e la maschera neri
del vendicatore californiano. Ecco quindi che, con il suo impianto picaresco da
wandering story e le avventure
ambientate in un Giappone alternativo, Mine Yoshizaki utilizza la stessa base
costitutiva di “L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte de La Mancha” e aggiunge un
elemento fondamentale: il castello, che nel testo di Cervantes restava sfumato,
poco più di un’allucinazione tra le tante nelle fantasie di Don Quijote ma
diventa una meta concreta per il più realista Sancho , quando il suo padrone
gli promette di renderlo signore di un’isola.
In “Zukkoke Knight Don Quijote” si
rimanda palesemente all’arte degli incastri di Cornelius Escher con le porte e
le scale che si moltiplicano in prospettive perfettamente geometriche ma
improponibili dal punto di vista gravitazionale.
Come fa notare Italo Calvino
(“Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, Modadori, 2012, p. 108 e ss.)
nella sua spiegazione dell’ “Orlando Furioso”, il maniero rappresenta il nodo
di dissolvimento, ovvero il Nulla verso il quale tendono i personaggi, spazio
circoscritto in se stesso eppure anche illimitato che riassume tutti i mondi
possibili, come accadeva in senso metafisico con l’Aleph di Jorge Luis Borges.
Quale può essere il corrispettivo nel testo originale di Cervantes Saaveda?
Forse il ritorno forzato al paese natio e alla casa, dove i libri di cavalleria
sono stati bruciati dalla nipote e dalla governante. In una maniera antitetica
rispetto a Orlando che torna savio liberandosi dalle catene dell’amore (canto
XXXIX) quando Astolfo torna in Africa con la boccetta del suo senno perduto, il
gioco di Don Chisciotte finisce quando egli si vede costretto a rientrare in
una realtà che non lascia spazio alle fantasie, sconfitto nell’ultima tenzone
dal Cavaliere dalla Bianca Luna (in verità il baccelliere Sansone Carrasco,
entrato nel ruolo con il proposito di rimandare l’amico tra i suoi cari).
In tutti questi esempi,
adattamenti e rivisitazioni rimane immutata una domanda: perché la lettura
rende pazzi? Non dovrebbe essere salvifica? In questo senso si apre per noi un
interessante scenario che consente di unire idealmente le due dimensioni:
quella letteraria e quella visiva; ovvero quali sono gli effetti della narrazione,
intesa con il suo significato più ampio, sulla mente del pubblico fruitore? Se
si pensa a “Chi ha paura dei draghi?” si intravede uno raggio di speranza nel
quale l’immaginazione dà a Wendell il modo di crescere interpretando la realtà
in chiave diversa, non ortodossa ma non sbagliata. L’allargamento dei punti di
vista corrisponde alla nostra epoca, ossia essa è propria di un periodo in cui
il lavoro autoriale è diventato in un certo senso sia globale sia strettamente
individuale; viceversa il “Don Chisciotte” (1605-1615) appartiene a un momento
storico in cui gli scrittori assolvevano anche una funzione morale. E così
Cervantes redime il suo personaggio con una fine malinconica ma pedagogica, in
una maniera simile a quella di Amleto (1600-1603) che esce dalla sua follia
simulata per consumare una vendetta che lo ricolloca in un mondo cupo e
tragico, un mondo in cui la morte occupa un posto centrale. In Shakespeare come
in Cervantes, la recita ha un ruolo fondamentale su più piani di lettura: da un
lato la finzione serve a svelare i meccanismi perversi della realtà; dall’altro
ci si finge pazzi per creare un proprio mondo alternativo che ammetta tanto i
giganti e i più favolosi castelli,
quanto i fantasmi, come metafora di un mondo altro. Secondo la tesi di laurea di Cinzia Poli[2],
tra la scienza e l’ignoranza esiste uno stato intermedio, ossia la doxa, l’opinione. È qui che si verifica
non la frattura ma la fusione tra quotidiano e finzione che è alla base del
gioco assoluto di Don Chisciotte, frutto di quel pensiero magico che Lévy-Bruhl
parlando “dell’anima primitiva”[3]
individua nella mente umana, sia nel
bambino sia nell’adulto. Analogamente i due personaggi di Don Chisciotte e
Sancho Panza si pongono come antitesi complementari che convivono in un’unica
visione del mondo, con lo stesso meccanismo che contrappone il cavaliere
inesistente Agilulfo al suo scudiero Gurdulù e (Italo Calvino, 1959)[4].
Se il cavaliere che cerca di esistere
inaugura il trucco del “facciamo finta
che …” Sancho personifica quella che
Jankélévitch definiva “coscienza ironica” e che, partendo dal buon senso
illumina il valore morale delle invenzioni del suo padrone.[5]
Molti sono stati i registi che hanno
tentato di realizzare un’opera basata su Cervantes ma pochi sono riusciti a portare a termine il film,
dando così vita alla leggendaria “maledizione” che ha colpito nomi celebri come
Orson Wells[6]
e Terry Gilliam[7],
che poi ci hanno lasciato preziosi documentari sul fallimento o pellicole che
prendono solo spunto dalle avventure del cavaliere – come se l’impresa fosse un
ostacolo insormontabile, un mulino a vento che converte i cineasti in cavalieri
dalla triste figura. I rimandi che trasfigurano l’originale sono vari vanno da
Mario Monicelli con il suo Brancaleone (1966) fino alla nuova versione a
fumetti di Yukito con l’adattamento di Yushi Kawata, che propongono però due
protagonisti più giovani e prestanti di quelli che tutti immaginavano.
In“Paperino Don Chisciotte” si gioca
sull’antropomorfismo e sulle buffe disavventure di un eroe particolarmente
sfortunato. Invece,sia nella creazione
di Toni Pagot e Gino Gavioli per “Il Giornalino”(1994) sia in “Zukkoke Knight Don Quijote” ci si
mantiene sul limite della caricatura, volendo dare la piena possibilità di
identificazione del lettore con il personaggio.
Gli esempi nipponici dunque
s’inseriscono in un più ampio filone che riduce le avventure di Don Chisciotte
a un racconto per i più piccoli e che trova su YouTube diversi esempi. Il
canale QuixotedotTv riunisce varie avventure spiegate non in senso filosofico
ma fiabesco, con uno stile grafico semplice e immediato, simile alla trasposizione
dell’animazione giapponese. Altro
intento ha invece il disegnatore LAZ che pubblica le sue caricature
sull’edizione digitale cubana di Joventud Rebelde: qui il cavaliere e Sancho
Panza sono protagonisti di vignette che rispecchiano l’attualità.
D’altra parte, “Siamo tutti Don
Chisciotte” scrive Gabriele Romagnoli su “Repubblica” del 7 febbraio 2016 ma
c’è da chiedersi quanti davvero combattano ancora spinti dall’idealismo e
quanti non siano piuttosto mossi dal bisogno di ritorno mediatico. Pochi sono
gli esempi di “purezza” che si possono ritrovare nell’era della Fine delle
Grandi Narrazioni, di cui parlava Jean-François Lyotard[8]
e della supremazia dei “tecno-scapes” sugli “ideo-scapes”, per riprendere Arjun
Appadurai[9]
e “Don Quijote” è diventato il nome di una catena di megastore che conta 160
punti vendita in Giappone e 3 alle Hawaii, con un fatturato netto che nel 2010
era di 122 milioni di dollari.
Diverse figure nella Storia
contemporanea ci rimandano al mito di Don Chisciotte: Ernesto Che Guevara e
Julian Assange, che come il cavaliere de La Mancha, hanno fatto della libertà e
della condivisione il loro vessillo esplorando nuove frontiere, reali o
virtuali che fossero. E poi Muhammad Yunus, Premio Nobel del 2006 che ha
sfidato il sistema delle banche mondiali con l’idea del microcredito[10],
i ragazzi di Occupy Wall Street che hanno resistito alla Crisi con la loro voce
che partiva dal basso e Serge Latouche, che da anni predica la dottrina della
“Decrescita felice”. Come per l’eroe cervantino si ha l’impressione che le loro
battaglie siano vane in un’epoca di giganti e che gli spazi da cercare siano
chimerici quanto il fantastico universo oltre le stelle raggiunto su un cavallo
volante – ma potrebbe essere una motocicletta, come nel caso del medico
argentino liberatore di Cuba o del Sir Pazzoide
di Chris Northrop e Jeff Stokley.
Le trasposizioni moderne fanno
pensare che anche i giovani d’oggi conservano un certo grado di donchisciottismo.
Il sogno s’infrangerà contro le barriere della realtà – che a volte, però,
concede qualche piccola vittoria – ma l’importante è continuare a perseverare
senza abbandonare quell’utopia che consente di vivere.
[1] Chris Northrop e Jeff
Stokley: “Chi ha paura dei draghi?”(Panini Novellini, Modena, 2015).
[2]
Cinzia Poli: “Pedro Calderón de la Barca: La vita è sogno – Interpretazione morale e
filosofica” (http://www.letteratour.it/tesine/A06caldeP01.asp.
[3]
Lucien Lévy-Bruhl: “L’anima primitiva” (Bollati Boringhieri, Milano, 1990).
[4] Italo
Calvino: “Il cavaliere inesistente” (Mondadori. Milano, 2000).
[5]
Vladimir Jankélévitch: “L’Ironia” (Il Nuovo Melangolo, Genova, 2006). Citato da
Antonio Tabucchi in “Caffè letterario di Repubblica 4.
[6] Orson
Welles: “Don Quixote” (1992).
[7] Terry
Gilliam: “Lost in La Mancha” (2003).
[8] Jean-François Lyotard: “La
condizione postmoderna” (Feltrinelli, Milano, 1981).
[9]
Arjun Appadurai: “Modernità in polvere” ( nuova edizione: Cortina
Raffaello, Milano, 2012).
[10] Muhammad Yunus: “Il
banchiere dei poveri” (Feltrinelli, Milano, 2013).
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