C’è qualcosa che non va in questo nostro “Rispettare la Tradizione”, perché mi accorgo subito che l’atmosfera è diversa, pesante, malata.
Facendo finta di niente – Sissignore, come se fosse tutto normale – sistemo le decorazioni sull’albero – è un albero finto, di plastica verde, spruzzato di deodorante boschivo, per sembrare più naturale: da anni abbiamo rifiutato la pratica barbara di lasciar morire un vero abete confinandolo in un vaso (aculei secchi che coprivano il pavimento, simili a preghiere inascoltate).
Prima le palline più grandi – al centro e sui lati (le due bianche con la corona di peluche quasi simmetriche, una a destra l’altra a sinistra) ; poi quelle di vetro trasparente, con il filo lungo, da mettere verso il fondo; quindi le più piccole – sulla cima un po’ depressa, abbattuta.
Dove i rami artificiali pendono sul presepe, creo un cielo di stelle e angeli svolazzanti, cercando un equilibrio ideale tra rosso, dorato e argento.
«No, non lì!» la mia voce è appena troppo stridula «Non vedi che non va bene, così?» Cassy prova a piazzare un globo colorato in mezzo alle mie schiere celesti. «No, non vedo. Sto facendo uno sforzo per stare in piedi, ok?»
Il silenzio della consapevolezza esplicita cade sulla colonna sonora natalizia che romba dalle casse cinesi del computer. Fino all’anno scorso ci saremmo divertite insieme, io a cantare e lei a fare i coretti.
«Manca lo scatolone con le luci»
«Manca lo scatolone con le luci»
«Manca lo scatolone con le luci»
«Manca lo scatolone con le luci» …
La ripetizione azzera una frase e la riscrive sullo schermo bianco della memoria.
Serro le labbra e la ignoro.
I tentativi di spensieratezza si sbriciolano mentre giro la chiavetta di un carillon e Silent Night si mescola a Enter Sandman.
Il rito non è compiuto finché non appendo sulla cima l’ultima decorazione, la più povera e tenera. I vari puntali non hanno resistito – ossidati dal tempo, corrosi dalla neve artificiale che usavamo prima del cotone – ma quella minuscola sfera coperta di tessuto giallo ha attraversato la furia sottile dei Natali Passati e si è guadagnata il diritto di segnare il momento, come una bandierina sulla linea del via.
«Mi sento male. Ho la nausea»
«Ok, vai a sederti di là. Ti preparo qualcosa di caldo. Qui finisco io dopo»
L’incantesimo si è spezzato, ma provo lo stesso a recuperare un tono conviviale «Beh, è una bella compilation per la festa di domenica, no?»
(…) Esita «Non è un po’ troppo rumorosa?» L’illusione che Cassy possa davvero tornare si frantuma come uno specchio lanciato per terra: la donna che mi sta davanti, con la schiena poggiata su una pila di cuscini, è innegabilmente D e ha una smorfia amara e un colorito giallognolo che la fa somigliare più al Grinch che a Babbo Natale («Oh-Oh-Oh, Merry Christmas!»).
Mi alzo, per nascondere un tremito che minaccia di diventare pianto.
Accendo la stufa.
Da un po’, da quando il termometro ha cominciato a calare, lei dice di aver freddo e s’intabarra con scialli e coperte.
La osservo sgretolarsi lontano dalla portata delle mie mani gelate e aggiungo il poncho cileno sul piumino, sopra il pigiama di pile, per non dover attaccare il riscaldamento anche nella mia stanza. D’altronde, che altro potrei fare io per ridurre i costi? Il fantasma della Crisi ha aggravato le mie paranoie economiche e adesso mi ritrovo a vivere in continuo scontro tra risparmio e perfezionismo.
Sarà difficile sopravvivere all’inverno. Ammesso che il 21 dicembre il meteorite dei maya non risolva il problema alla radice con la forza cosmica del Giudizio Universale.
Se il Mondo intero non scompare in un cratere, appenderò alla porta di casa un cartello con scritto Survivors – Ad Art Attack, hanno spiegato come tagliare un pezzo di cartone in modo che sembri un’asse scampata al naufragio.
Immagino che già il 20 inizierà una pioggia di messaggini e mail, un rincorrersi affannoso di previsioni mentre gli americani si trincereranno dentro i loro bunker nel giardino di casa. Alla tv, i talk show avranno un display su cui scorre il conto alla rovescia (Meno 9… 8… 7…)
Il 22 ci sveglieremo cambiati: evaporati, trasformati in scarafaggi o in fito-umanoidi mazoniane. O magari con le orecchie a punta e testa oblunga.
Gli orologi si fermeranno e poi riprenderanno il loro ciclo.
Stringo la tazza bollente. Butto giù un sorso di mate rovistando mentalmente tra i possibili argomenti di conversazione, ma le parole hanno perso smalto e riecheggiano vacue, rimbalzando.
Meglio abbandonare qualsiasi accenno e posizionare ancora qualche statuina sullo scenario fisso dei monti di cartapesta. C’è un contadino con delle galline più grosse di lui, quattro re magi con dromedario ed elefante, un Totoro col suo flauto di pan, e una pecora decapitata: vanno tutti verso una sacra famigliola messicana.
A Giuseppe – José per gli amici – manca mezzo cranio. Lo spazio dietro agli occhi è vuoto e riflette il luccichio blu di un foglio stellato.
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