venerdì 14 marzo 2014

YOSHITSUNE E I CENTO FIORI DI CILIEGIO


Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, lei ha scelto la peggiore.
Avrebbe potuto dire: «Beviamo un succo insieme al nuovo bio-bar del porto, ho sentito che è buono!»; Avrebbe potuto dire: «Andiamo da Muddy, fanno delle centrifughe grandiose che sanno di Giappone: ti commuoverai di sicuro!»; Avrebbe potuto dire persino: «Proviamo a vedere se Al Locale c’è qualcosa che anche tu possa mangiare …»
Sarebbe stato bello, per una volta ridere e condividere.
Ma tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, lei ha scelto la peggiore: «Io preparo e poi tu mi raggiungi in ufficio»
Reggevo il piatto con una mano, stiracchiando la speranza miracolosa di non incontrare nessuno per strada … ma questo prima, prima di incrociare una delegazione di attori bollywoodiani che scendevano le scale saltando gli scalini a due per volta, dentro ai loro sgargianti vestiti di scena (come se fossero in missione segreta). Ok, imparerò anch’io i passi di danza per unirmi alle coreografie e seguire le parole a mani giunte: “Una volta che hai capito chi sei, quel che conta è il cielo stellato” ripete la canzone che ho inventato.
Quando arrivo sul pianerottolo la sua voce, nella stanza è un trillo acuto. Il suo sorriso ha la spontanea, allegra crudeltà dei bambini mentre usa un ventaglio come arma. Un movimento cognitivo involontario le aveva fatto trovare il modo più letale per umiliarmi. Resto seria, impugnando le posate con la ferocia meccanica di uno spaccapietre per non sentire il sapore di ciò che mi rotola in gola. Un altro spostamento d’aria corrisponde al suono tagliente del campanello. La imploro in silenzio, con le occhiaie sempre più viola, ma si alza richiudendo le stecche con un colpo secco. «Scusa un secondo, dev’essere il corriere dell’altro ufficio» …
E resto sola.
Schiacciata da decimetri cubi d’aria – «Il “tessen” è ferro avvolto nella seta» sussurra Erin al mio orecchio «e a volte può essere letale» E continua a raccontare: «Il padre di mio nonno era un guerriero e ne aveva uno sempre infilato alla cintola, perché all’epoca era vietato portare spade nelle abitazioni e nei castelli e quindi occorreva avere uno strumento che si confondesse col normale abbigliamento. Il mondo è sempre stato un luogo pericoloso». Scompare con un sospiro mentre la porta si apre e si richiude.
Cassy brandisce un foglietto e non sembra essersi dimenticata di me.
Succede spesso.
E io voglio un contatto. Allungo la mano sul piano della scrivania, sopra l’imbottitura bordeaux resa rigida dagli anni e dalle bruciature di sigaretta.
Adesso dovrebbe essere il momento in cui lei nota le mie cicatrici e non dice nulla accarezzando i segni di un traslucido rosarancio (il colore delle spose), e invece è distratta dal bagliore paleo-catodico di uno schermo obsoleto e pesta sui tasti cercando i codici da inserire sul modulo da stampare. Non si accorge di niente. «Scusa sai ma è lavoro …»

Solo un’amica, qualche giorno fa, ha lanciato un’occhiata al cerotto confuso sotto mille braccialetti di plastica: «E quello cos’è? Piantala una buona volta!» Penso: “Perché mi giudichi se lo hai fatto anche tu milioni di volte?” ma invece di attaccarla le allungo il cellulare, mostrando la successione di passaggi per la creazione di fuochi d’artificio. Sono tracce pericolose che dovrei cancellare, se non fosse per l’orgoglio stupido del martirio con retrogusto esibizionista. «Oddio! Ma hai  cercato di tagliarti le vene??» Non è preoccupazione ma semplice disapprovazione con doppio marchio interrogativo. «No, è solo una goccia artistica …» Cerco la battuta giusta per finire la frase « … E poi le vene normalmente sono dall’altra parte, mi dicono!»

Rifletto un secondo. Non sarebbe difficile spingersi un po’ più in là nel giro della morte – Quanti strati di pelle irrorata ci saranno prima di arrivare all’azzurro pallido delle nervature? 

Nessun commento:

Posta un commento