Ho imparato che
dietro al dolore c'è sempre altro dolore, come i cereali dietro una barretta di
cioccolato al latte.
Quando mi
sveglio, il pomeriggio non è ancora fresco e il mondo fuori è immobile come
l'avevo lasciato.
Preparo un
caffè con la polvere solubile, mescolo l'acqua calda rompendo la schiuma scura
in superficie e lancio il cucchiaino nella conchetta dei piatti sporchi, di
rimbalzo, con la precisione di un cestista.
Quella delle
riserve idriche stagnante è una mania particolare del paese, come fossimo in
una savana africana e in realtà non sono riuscita a dormire molto mentre una
zanzara cercava di pugnalarmi le pupille. Il risultato è che sono stordita,
incapace di articolare parole su un computer quasi privo di connessione. Guardo
sconsolata le colonnine del segnale che lampeggiano in agonia e mi viene in
mente l'ultima puntata del solito telefilm medico: un paziente malato di SLA
decide di farsi staccare il respiratore per donare i suoi organi ancora
funzionanti. Con i circuiti bollenti potrei costruire una macchina per il
trasporto dimensionale che mi porti lontano da qui.
«Vado a farmi
un giro. Cercherò un posto tranquillo e all'ombra dove leggere»
Seguo la strada
che abbandona le case e si dirige verso il Santuario sulla costa. Aumento il
volume tonante del mp3 e riprendo il vecchio gioco di camminare solo sulla
linea bianca lungo la carreggiata. Mi sento come un cagnetto scaricato
sull'autostrada o uno dei bambini di Stand
by Me, anche se non c'è nessuno a cantare con me. Il paesaggio è vuoto.
Poche persone, miniature in un quadro fiammingo. Per evitare un ragazzetto
palestrato che sta truccando il motorino nel suo bel giardino succulento, fisso
le rovine di una carrozzeria arrugginita, buttate in un orto di ulivi: sembrano
gli aerei dell'aviazione inglese nascosti nei campi greci. Le foglie sugli
alberi lanciano occhiate verdargento.
Mantengo i
passi sulla curva di gesso anche quando rasenta gli spigoli di un muretto a
secco, anche attraversando un roveto carico di fiori di gelso.
Penso a Sylvia.
Insieme passavamo ore su quell'asfalto sciolto dal sole a concatenare sillabe,
ma ora lei se n'è andata per vivere un destino in technicolor, fatto di smorfie
buffe e magliette a righe in una città dalla squisita allure francese tardo-coloniale.
La sua immagine digitale ha i colori
pacati del filtro “calmo”. È immersa nella luce cangiante delle vetrate di una
cattedrale neo-gotica e sorride stringendo la tazza di carta di un espresso
ultra-lungo e mi lascia indietro.
Allungo il
passo quando la striscia si fa discontinua per restare in equilibrio sopra
l'abisso, un frammento dopo l'altro. I segmenti slabbrati sono monticelli di
coca da cancellare con una sniffata. Si diventa iperattivi o socievoli o
aggressivi, prima dell'epistassi inevitabile. Ricordo la scena di Pulp Fiction
in cui Uma collassa e John le fa
un'iniezione di adrenalina dentro un puntino segnato sul cuore con un
pennarello.
Niente da fare,
la linea bianca mi riporta inesorabilmente indietro. Quando apro il cancello,
Cassy è sul terrazzo con il rigattiere albanese, che ha portato in regalo
un'inquietante sedia da barbiere anni Cinquanta che, piegata e piena di
polvere, rievoca certe rasature definitive alla Sweeney Todd. Mangiano
mini-susine gialle, brindano a spuma – altro residuato post-bellico che solo
qui resiste alle evoluzioni del mercato – e lui sta riportando gli ultimi
aggiornamenti dal bollettino dei necrologi: «Comunque la signora che viveva nel Condominio non è morta» Dei sessanta abitanti di Bottomburg,
sessantuno hanno già passato i cent'anni e la lista dei decessi è diventata la
principale fonte di gossip sulle panchine dei giardinetti – per il resto
infestati da cani, tossici e bambini in proporzione variabile.
Poco prima
avevo visto la vecchia in questione affacciarsi al balcone per controllare
l'andirivieni sul marciapiede che considera suo dominio personale. Sembrava la
Calavera Catrina, ma con un'aria
decisamente meno simpatica.
Saluto con un
cenno apatico per evitare di essere coinvolta nella conversazione, mi infilo in
sala e cerco una connessione ballerina.
L'etere vibra, provando a ribellarsi. Inserisco i numeri d'accesso e la
chiavetta lampeggia con uno sforzo ubbidiente.
La realtà
scorre anche senza di me. In un centro sociale stasera suona un gruppo
giapponese. Stringo i denti e cancello la notifica.
“Dietro al
dolore c'è sempre altro dolore”.
La mia tazza è
rimasta sul tavolo. Vado in cucina e aggiungo dell'acqua calda direttamente del
rubinetto ignorando gli organismi mitocondriali che scendono nelle tubature –
tanto verranno sterilizzati dalle microonde. Per un attimo provo a visualizzare
come sarebbe essere uccisi da un bombardamento di radiazioni che scindono e
surriscaldano ogni molecola. Le ditte americane raccomandano di non mettere i propri
animali domestici dentro gli elettrodomestici ma, finché non apri lo sportello,
il gatto è sia vivo che morto ...
La vita ha un
sapore diluito e sporco che bisogna trangugiare in un sorso. Per non
avvelenarsi.
http://youtu.be/Au0OUrhn-x8http://youtu.be/jMfKZOBo74w
Nessun commento:
Posta un commento