La domenica scorre con insopportabile lentezza e mi arriva il profumo delle cotolette al curry che Cassy sta friggendo per Ortensia, la nostra vicina. Da quanto tempo non sentivo lo sfrigolio nell’olio nella padella e l’odore speziato della farina croccante accanto alla nota delicata del riso basmati!
Stille d’invidia in microgrammi mi circolano veloci nel sangue, dilatando le narici e riempiendo gli occhi di una tristezza pesante … almeno quanto l’annuncio dei biscotti speciali alla cannella, lasciati da parte per una merenda con le amiche. Piccoli dolori della ricerca della perfezione.
Cosa mi aspettavo?
Ieri alla mostra, la magia di lineamenti che emergevano dalla pietra mi ha fatto pensare al disperato bisogno di comunicare qualcosa e, mentre andavo da una sala all’altra affrontando il percorso catartico degli scaloni genovesi, provavo a ignorare la presenza angelicata di Béatrice e Ondine da qualche parte tra le sculture di marmo rosa del Portogallo – volti distorti dalla nostalgia del futuro.
«C’è chi ha la fortuna di nascere bella e chi deve combattere per essere un po’ meno orrida» Sorridevo, ma nell’autoironia sentivo il sapore amarognolo della sconfitta. Non importa. Mi girava un po’ la testa e forse avrei potuto svenire strategicamente ai piedi di un artista coreano per farmi soccorrere con un sorso d’acqua – perché lo zucchero è stato esiliato dai miei orizzonti papillari.
No, troppa sfacciata sicurezza non fa per me. Preferisco il balsamo dolce delle lodi «Complimenti, complimenti: un ottimo testo. Bello, davvero.» Erano gli invitati che si materializzano sempre nel microcosmo degli “eventi culturali”.
Mi serviva un momento.
Mi sono chiusa in ufficio e ho acceso il bollitore pregustando il conforto di tè verde bollente. Vacillavo e Jane mi sosteneva con le sue braccia sottili. Pantaloni neri attillati, dolcevita a costine, un filo d’ombretto e i capelli tagliati di fresco «Non ti senti bene? Vuoi che chiamiamo un taxi? Possiamo sempre metterlo in conto al boss». Maledette paranoie economiche! Le sue parole mi arrivavano ovattate come un soffio, come il suono della pioggia d’estate in un boschetto di bambù – rin-rin: gocce che cadono sul verde brillante e liscio. «Se aspetti ancora un minuto, ti accompagno in autobus».
Sono tornata a casa quando il buio era già compatto e definitivo.
Mi sono sdraiata spegnendo il cervello (e il cellulare).
Il cuore rallentava tremando: un corvo rosso esposto nella fragilità della cassa toracica.
Cercavo il filo del racconto nelle pagine di un romanzo cinese, ma lo sguardo saltava tra le righe confuse e il corpo s’intorpidiva nel gusto appiccicoso dei cinquecento tagli di un boia professionista. Persino uccidere bene è un atto di rispetto nei confronti della vittima.
Sono una Fenice incompleta, rinata mille volte dalle ceneri. Prometea senza fegato in attesa del supplizio.
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