venerdì 19 ottobre 2012

LA BAMBINA CON GLI OCCHIALI - A yôkai in my kitchen

«Ti sei ferita, in cucina?» mi ha chiesto Cassy «C’erano un sacco di goccioline di sangue per terra»


Il profumo di “ Fresca Primavera” conferma una pulizia tardiva, uno straccio ancora bagnato in un angolo. Io stavo bene, nessun taglio sulla pelle bianca. Il gatto – “Cheshire” scritto in caratteri semi-evanesceenti sulla piastrina – aveva rovesciato una pentola sui fornelli, ma non si era fatto male e anche lo smalto rosso era rovinosamente intatto.

Da qualche giorno avevo persino messo via il “kit per il successo”, i miei attrezzi da fuochista per fiori scarlatti da disegnare sui polsi. Quando li osservavo, mi sentivo Vanessa Paradis legata al target del domatore di coltelli. Li avevo sistemati dentro a un astuccio di vernice blu con un pierrot aggrappato alla luna: tutto l’occorrente per scacciare il dolore.

«Forse c’è uno yôkai in casa.» Già, uno spirito ...

Una coppetta di ceramica per il tè che corre per le stanze per avvertire di una disgrazia imminente. Difficile credere in un periodo troppo positivo … Pare che io e Cassy siamo destinate a soffrire ma in silenzio – mi raccomando.

Sempre per cose minime che restano addosso come microfratture – cosa vedrebbe dio se potesse farmi una radiografia all’anima?

Magari nel futuro inventeranno un paio di occhiali per percepire la vera natura delle persone, il livello spirituale delle lenti per spiare sotto i vestiti delle pin up. Nel frattempo potrei comprare dei Ray Ban di plastica. Con la garanzia economica di una vista non polarizzata, sarò più neutrale in questa popolosa Terra di Nessuno. Scendo al mercato per provare i modelli allineati su un banchetto indo-musulmano ...

Il viso nascosto da una grande montatura da diva.

Alla fine tentenno e guardo il cielo carico di nuvole gravide: «Intanto prendo un ombrello».

Ho gli occhi gonfi, annaspo in un pantano e mi sembra di aver pianto tutto il giorno, anche se non ho versato nemmeno una lacrima … Ho l’impressione che, se non mi liberassi di questo peso mi verrebbe un’infezione di muco verde che, premendo nelle orecchie si trasformerebbe in un fluido salato e appiccicoso; ma ho anche paura. Paura che se dessi sfogo alla frustrazione, inonderei la mia camera con uno stagno in cui naufragare insieme a un topo, un dodo e altri strani animali, vero Alissa?

Ricorro a te quando sono sola.

Ricorro a te quando sono stanca di essere me stessa.

Ricorro a te quando ho bisogno di risposte.

Ora dimmi, quale tragedia annunciano le giravolte pazze della tazzina animata?



00.02 Faccio l’inventario delle mie disattenzioni. E ogni respiro allunga lista.

Potrei cercare nella lama calda un po’ di sollievo, potrei tagliare in superficie, sotto l’orbita. Somiglierei a una Vergine miracolosa, in piedi davanti allo specchio – click. Una polaroid da usare come santino per i prossimi auguri di Natale, se il mondo non finisce prima. Ci sono ragazze che s’incidono il viso in un rito di passaggio, ci sono quelle che vengono fregiate, ci sono quelle che per tutta la vita sono considerate oggetti. Non sono mai stata picchiata: niente lividi da giustificare a scuola dicendo di essere una sirena malata d’inquinamento, nessun segno d’amore deviante, solo la metafora perfetta di una Stockholm Syndrome platonica che mi sfiorava in punta di pensiero, perché io sono sempre stata l’ultima salvezza dopo la deriva. La mia rabbia non ha mai avuto diritto di cittadinanza e la solitudine è lentamente diventata la mia foresta personale, la mia norwegian wood piena di deboli fiammelle da accendere ai ricordi estinti.



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