Inciampo nel cassetto aperto. Cado e la tazza piena di tè finisce in frantumi sul pavimento.
«Merda!»
Vorrei che qualcuno venisse a vedere cos’è successo. Vorrei che qualcuno dicesse “Tutto bene?” oppure “Dai, non è niente”.
Come può essere banale il bisogno di tenerezza!
Era successo qualcosa di simile anche quando avevo sorpreso Sylvia con Isao, il suo ragazzo di allora … No beh, più che “sorpresi”, li avevo “sentiti” al di là della porta chiusa della sua stanza … Squittii, risolini, sottomissioni consenzienti … Ero rimasta impietrita e il bicchiere mi era sfuggito in un arcobaleno di plexiglass.
Avrei voluto scappare per non essere fuori posto, ma invece mi ero fermata stupidamente a raccogliere i cocci – sottili schegge di vetro che mi ferivano le mani. Piangevo senza riuscire a fermarmi, senza sapere perché.
È ovvio che io fossi al corrente di quei suoi tentati amori senza troppo futuro, fughe a scadenza illusoriamente non programmata come yogurt lasciati apposta in fondo al frigo; il fatto è che fino a quel momento tutte le fangose storie sul sesso erano state soltanto ipotesi lontane proiettate su uno schermo, niente che potesse intaccare il mio mondo immaginario di pura amicizia, ma alla fine l’impatto doveva arrivare, violento con tutta la sua crudeltà in slow motion …
Quindi avevo tirato su ogni singolo vetro e poi ero andata via pian piano, in silenzio, senza far rumore … Le strade erano affollate della calca faticosa del sabato e il cielo prometteva pioggia mascherandosi dietro a un sole malaticcio.
In alto i gabbiani volavano in stormi disordinati lanciando grida funeste.
Una volta un’amica mi aveva raccontato una storia:
« C’era un uomo circondato da uccelli infuriati e cercava di scacciarli brandendo una katana! Se ne stava là a petto nudo e mulinava la spada in aria come un pazzo! Roba da matti, davvero».
Ho preso la metro, non perché avessi una meta ma solo per il piacere ottuso di scivolare nel buio, dentro la terraanonima. Fissavo le luci alogene delle stazioni cancellandomi i pensieri e registravo appena la presenza incongrua di un Darth Vader in ascesa stellare sulla scala mobile.
Siamo tutti eroi fuori dal tempo.
I cartelli sfrecciavano sconosciuti. Cosa ci facevo io lì, in una città troppo piatta per il mio piccolo cuore agorafobico? Sarebbe stupido pensare che davvero mi aspettassi una storia, perché ammiravo Sylvia con la muta venerazione che si riserva agli esseri superiori.
La sera prima, per il concerto, avevamo dato il meglio e lei brillava di algida gloria meccanica, con la sua giacca maschile su una minigonna ridottissima – i Doc Martinens allacciati fino al ginocchio in una posa marziale. Gli occhi cerchiati di blu pervinca brillavano nell’alternarsi di raggi stroboscopici dal palco mentre il frastuono di una canzone noise elevava il suo profilo sul piedistallo delle dee.
http://youtu.be/fn2UGBns8_E
Non avrei mai potuto sfiorarla. Lo avevo capito da subito, da quando lei aveva smesso di parlarmi direttamente per sfinirmi con attacchi subliminali che mescolavano le ricette francesi di un canale di cucina e le foto patinate di un depliant del supermercato …
In alto i gabbiani volavano in stormi disordinati lanciando grida funeste.
Se fossi stata più sicura di me, se fossi stata normale, avrei seguito il consiglio nascosto in quei versi sgraziati – Gra gra … “kiss her, kiss her” – e forse l’avrei baciata per farla tacere, come in una commedia rosa americana.
Ma potevo solo subire il diluvio d’impossibili bontà culinarie, guardarmi le dita – macchiate di sangue come quelle di una santa incompresa – e correre all’impazzata nel nero di un tunnel, assaggiando il peso della solitudine che mi piombava di nuovo addosso con il sapore nauseante della noia, con l’ipnotismo di un pezzo strumentale distorto, con la faccia sciupata e invecchiata di Kim Gordon.
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