«Pronto, Buongiorno. Associazione
Culturale Contrasti, mi dica … » Una voce arriva dall’oltretomba di un ricovero
per pazzi «È uscito il catalogo. …. Cos’ho vinto?» le sillabe smozzicate
collidono col mio tono professionale. Non so quasi nulla dei dettagli
organizzativi, ma Ondine è impegnata in mezzo alla polvere del piano di sotto. Gli
operai sfondano i tramezzi e dipingono le pareti di fucsia, come il vino rosso
versato su di una tovaglia. «Là nell’angolo vorrei mettere una fontana o
un’acquasantiera» Si è vantato il Boss, brandendo le chiavi del labirinto … e
intanto i nostri stipendi scorrono via insieme all’acqua sporca del secchio di
Tony, il tuttofare.
Strizzando il mocho nell’apposita
fessura, tenta di ripulire i detriti dell’ennesima esplosione «Che begli
occhiali che hai!» È stato l’unico a guardarmi in tutta la giornata. E dire che
ero così fiera degli occhialoni da moto costruiti da mio nonno: autenticamente
vintage, fantasticamente old-old fashon. «Sì, grazie» con un senso di sollievo
gli racconto tutto della mia famiglia, di quell’uomo dagli occhi azzurri come
laghi d’inverno – occhi un po’ tristi, che non rendono nelle foto in bianco e
nero –, dei campi di lavanda sul confine francese, delle colline verdi che
nascono dal mare … Beh, no, forse non dico tutto questo perché non c’è lo
spazio né il tempo, ma lo penso; e il pensiero fa sbollire la rabbia
quotidiana.
Ho telefonato al Boss. Il suo
smagliante smartPhone vibra nella trasferta nevrotica di Milano:
nell’incertezza di una fiera-per-soli-compratori nell’era della Crisi, per ora
c’è soltanto un numero infinito i etichette sbagliate e una scatola piena di
chiodi e di viti. «Senti … per la scadenza di oggi …» gli ricordo, tentando di
sovrastare il rumore dei trapani in sottofondo «NON HO TEMPO!» taglia corto
lui, troncandomi la frase. Ci riprovo, caparbia. Sono sei mesi che manchiamo
ricorrenze d’ogni tipo. «Lo so, per questo sono entrata nella schermata del
computer. Devo solo inserire i dati» «TU NON INSERISCI NIENTE, CAPITO!?» Tuona,
come Susanoo prima di scoperchiare la sala del Palazzo Celeste. Ma no, il
paragone non calza perché non c’è irriverenza o anarchia nel ruggito, quanto
piuttosto l’imposizione collerica del Leviatano. «Ok, ok …» Conto fino a dieci … congiungo
indice e pollice: “Ohm”. Salgo di nuovo le scale bestemmiando e ficcando
le mie cose nello zaino. Ho bisogno, assoluto bisogno di passare da Sócrates a
fare un po’ di shopping. Sull’agenda ho una lista infinita di cose da
chiedergli: di sicuro troverò la mia consolazione momentanea.
La rabbia mi spinge come il vento.
Sincronizzo il passo, ancheggiando
sulle strisce pedonali.
«Hai qualcosa di Capitan Harlock?
Vorrei essere preparata per la prima del film!» esco dal negozio con un
tascapane nuovo. Sul lembo di chiusura campeggia un’immagine del Pirata dello
Spazio meravigliosamente anarchico in versione anni Settanta. Il nuovo capitolo
dell’eterna saga sarà tridimensionale, con un immaginario generato a computer.
Bello e cupo per le generazioni future.
Tutto cambia precipitando troppo
velocemente.
Un mio “amico” scrive in rete: “Noi
siamo stati gli ultimi ad ascoltare le musicassette” – Ricordate il fruscio
delle TDK copiate? “Siamo stati gli ultimi a pagare la colazione in lire”
– Chiedevamo al panettiere un millino di
focaccia e un Estathé. “Siamo stati gli ultimi a guardare Bim Bum Bam” – Siamo
quelli cresciuti con la Strega Gramigna, Uan e For, mentre oggi Cristina
D’Avena è un mito imbalsamato sul palco delle convention di fumetti.
Tornando in dietro, già più calma e
rasserenata, anestetizzata dalla droga del possesso, entro nel bar che hanno
appena aperto davanti al mercato.
“Pace della mente in un mondo
instabile” c’è scritto in inglese sulla mia tazza di caffè filtrato (e io scatto
una foto da condividere).
Spio i colori vivaci delle piante
nei vasi, sulle bancarelle di fronte. Il liquido scuro ristabilisce il ph del
mio cervello e dello stomaco ulcerato.
Da due giorni quasi non dormo.
Brucio e mi contorco in silenzio.
Nei rari intervalli in cui il rumore della televisione mi culla, sogno di
cantare perdendomi in cielo pieno di stelle e mi sento un po’ come K: mi pare
di capire di più il suo dolore, il pigiama usato come abito da cerimonia, le
dita lunghe da poeta, lo sguardo smarrito dietro il sole.
http://youtu.be/9uWwvQKGjLI
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