giovedì 15 aprile 2010

cerbiji e forbici

05 aprile 2010

Sono sola. Oggi lui non c'è. Datemi dei fiori o una piantina per rendere migliore questo giorno di troppa luce. Ma qui non è rimasto niente. Mi aggiro nel fango dell'ultima pioggia,con un paio di Superga scucite e le forbici in pugno: corolle gialle spuntano tra le erbacce. Qui le chiamano cerbiji: margherite spinose, buone per le galline. O nel minestrone. Adesso la baragna vicino al pero è nuda,un reticolo di fili arrugginiti: non ci sono le rose di Santa Rita. In realtà non mi erano mai piaciute, con il loro sbocciare eccessivo e procace, ma mi si ripeteva sempre che erano le preferite della nonna e ricordo che le coglievamo in mazzolini ordinati, da mettere davanti alle foto ingiallite dell'altare di famiglia. Già, e allora perché non lasciare anche un bicchiere di vermentino, o una sigaretta accesa. Una Wiston light o una MS deluxe, dato che nella mia mente le cose si confondono. Che tristezza. Pare che nel mondo sia una mattina di festa! Qualcuno mi ha detto che aspettano un angelo bianco e senza spada, che apparirà splendente nella piazza sonnacchiosa, davanti al Dopo Lavoro, ma io non ci credo, non posso crederci. Un vecchio attraversa la strada, troppo ubriaco per una profezia.
Brucianti scardassature Bic Lady mi restituiscono la calma, in rosse macchie di Rorscarch Avvolgo un pezzo di carta intorno al polso e fermo il tutto con l'elastico degli asparagi: PRODUCE OF PERU. Da una settimana lo sto usando come braccialetto. La prossima volta che andrò dal fruttivendolo, ne prenderò uno anche per María Luisa. O forse sarebbe meglio di no? Se io fossi nata a Lima come lei, lo porterei con orgoglio, tanto per distinguermi dalla folla, ma... magari invece lei potrebbe offendersi... Non so, proverò a regalarglielo con un sorriso, quando la vedrò all'università, in fondo è solo un pezzo di gomma viola.
La fasciatura protegge i vestiti e evita che il detersivo irriti le ferite mentre lavo i piatti di ieri sera. Ho i guanti, ma sono enormi e l'acqua mi scola lungo le dita. Devo fare una doccia prima di uscire, per togliermi di dosso l'odore di sapone scadente. Al supermercato, non ho trovato quello che uso di solito – piacevole profumo di frutti di bosco. Cosa posso farci se sono abitudinaria? E in questa casa lo sporco sembra riprodursi con una specie di partenogenesi demoniaca. Ci sarà almeno una spugnetta per pulire il forno? Non ho nessuna voglia di avere un colloquio con S. Giuda! Aggredisco un'incrostazione marrone con una paglietta verde poco convincente. Credo che una vacanza sarebbe l'ideale ora, se servisse a farmi dimenticare per un momento chi sono. Il Portogallo dev'essere meraviglioso in primavera: il Douro, quiete colline verdi, i monasteri, lo stile manuelino – ancore e conchiglie elegantemente scolpite nel marmo dei palazzi. Non è necessario vivere, è necessario navigare. E forse non serve neanche una rotta precisa. Mi piacerebbe srotolare sul tavolo una mappa medievale e tracciare un itinerario fantastico pieno di curve, partenze e ritorni. Userei uno di quei pennarelli a punta tonda che hanno i chirurghi plastici nei telefilm americani, così il viaggio diventerebbe il mio nuovo corpo da cambiare,modificare. Anche questo presuppone dolore e rimango ferma. Ogni passo è una fitta, un sussulto caldo nella cavità dove doveva essere il cuore e poi a destra, riflesso, giusto sopra al seno, contro l'ascella...
Mi siedo al computer e scrivo parole proibite, con un imbarazzo da ragazzina vittoriana nelle dita. Le mie emozioni saranno purificate prima che si alzi e riempia la cucina di un'aria pesante di sonno e senescenza.
La capisco. O vorrei capirla?
Ogni ruga è una preoccupazione che precipita, il segno del tempo che non frena la sua corsa lenta. Quanti secoli mancano alla pensione, tra un'ispezione del capo e una scenata del collega nevrotico? Desiderio di silenzio che crea distanze siderali.
Il pranzo dalla sua migliore amica si preannuncia come una lunga giaculatoria monocorde di malattie, acciacchi e decessi, cercando di evitare gli sguardi curiosi alla mia bottiglietta di succo di mango tropicale, troppo terreno e materiale, i numeri stampati sull'etichetta. Zero possibilità di fuga.

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