Mi sento
inutile. Vuota. Un peso.
Morto.
Qual è lo
scopo?
Scrivere? Perché?
Se oggi non
servo a nulla e domani neppure.
Ieri la
mattinata è stata difficile,
ma Cassie
era gentile: «Ti porto io a fare un giro»
Uscire.
Fuori c’è un altro universo.
Assaporo il
mondo in un modo che non avevo mai sperimentato. E non importa che siano i
soliti posti conosciuti perché hanno un sapore nuovo di scoperta. (Abbandono l’invidia
per i miei “amici” virtuali che se ne vanno in vacanza in Australia o in Giappone:
adesso ha senso persino un sogno tanto ridicolo da essere contenuto in un
fazzoletto, o nel lasso di qualche fermata di bus).
Per un
momento sono felice. Lo spazio esiguo
di tre ore.
Poi – certo –
ripiomberò nell’abisso che mi contraddistingue, fatto di stanchezza.
E di
paranoie.
Chi m’impone
i ritmi che mi sono fissata? Un libro da 970 pagine è una sfida, una scalata
per riempire il tempo. Se dovessi dipanare la trama davanti ai vostri occhi,
probabilmente non ci riuscirei; ma l’orologio scorre via e questo basta.
Perché in
questi giorni nessuno bussa alla mia porta? Tanto dimenticata che resta solo la
voglia di piangere. O magari tentare qualcosa di peggio. Un giardinaggio
estremo che porti a recidere tutti i fiori.
Non ci
pensiamo. In fondo un altro giorno non è poi così lungo se lo divido in piccole
porzioni.
Leggo. Guardo.
Annoto.
Sono soltanto
considerazioni oziose che servono a mettere un po’ d’ordine e a non lasciarmi
sopraffare dal dolore. Ma no, non è dolore.
È qualcosa
di peggio, più grigio e informe.
Cassie è
fondamentale
Dolce, se
parla con Liz, la muta
Mary Ellis è
stata spietata ultimamente. Distruttiva, direi
«Tu mi odi»
continuava a ripetere D, sempre più amara.
“Devo
nascondere che odio me stessa” avrei voluto rispondere, ma è una questione
troppo intima.
«Dovresti
parlarne con … (e pronuncia il nome di quella donna, l’osservatrice aggiunta
per errore”)»; ma io non me la sento, perché non è lei che può aiutarmi
tirandomi fuori dal nero in cui ogni tanto sprofondo.
D è in crisi
perché ha dovuto lasciare il lavoro dopo quarant’anni di routine. Le propongo
di cercare delle alternative per non ingrigire in un letto, ma lei rifiuta con
un gesto e una scrollata dei capelli – argento rado. «Mi sentirei umiliata sapendo
che sto solo occupando i pomeriggi senza che mi importi davvero ciò che faccio»
«Ma ci sarà qualcosa che t’interessa: un corso all’università, una scuola di
lingue, le tue lezioni di basso …» Sbuffa.
Ma io non
posso e non voglio essere il centro unico del suo orizzonte. Non lo
sopporterei; e allora la spingo forse ancora per puro egoismo, per il bisogno
di non sentirmi in colpa, in difetto.
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