domenica 28 febbraio 2010

FLEMISH DOLLS

火山kazan – vulcano –


Don Eneas restava immobile nella quiete aspra del giardino degli aranci, le mani poggiate sul pomolo del bastone, il riflesso della nostalgia sul vetro vivo degli occhi ormai ciechi. Là verso l’oriente segnato dal ciclo caldo del sole, il vulcano sonnecchiava innevato e nero, guardiano millenario della città immobile. Non aveva bisogno della vista per indovinare ogni dettaglio della sua piccola realtà quotidiana: era vecchio e lui stesso aveva inventato i paesaggi tristi di un mondo scomparso. Era stato il migliore nell’epoca in cui le sedie avevano ancora un’anima calda di legno e paglia, prima che si comprassero i mobili in serie e i giovani finissero tutti imprigionati metropoli plastificate.

Non aveva più lavorato da quando aveva confezionato 15 rose con il prezioso broccato di Fiandra che un cliente gli aveva ordinato per un divano.
Non aveva più lavorato da quando aveva sepolto Lynn. Una ciocca bionda intrecciata nell’intelaiatura della sua ultima opera, per averla vicina per sempre. E da allora lei gli parla con la voce segreta degli Invisibili, continuando il racconto dolce della loro intimità.
L’aveva conosciuta nel profumo mediterraneo della zagara, nel susseguirsi giocoso dei giorni. Non le aveva chiesto nulla, se non la tranquillità innocente della felicità domestica e l’aroma speziato dei biscotti che cocevano in forno ogni mattina.
Un buon matrimonio si fa in cucina. Diceva.
Io penso al benessere dello stomaco e tu a quello del didietro !
Rideva, con il suo sorriso di perle bianche, e pronunciava “didietro” con uno sguardo malizioso, come se si trattasse della peggior parolaccia da osteria.
Lui a quei tempi non sapeva nulla del mondo, ma era stato certo di adorarla fin dal primo istante, nella musica allegra ballo di San Mahoma. L’aveva spiata per tutta la sera, da un angolo del patio del municipio, assentendo distratto ai successi professionali del Dottor Octaviano Sena Páez.
Lei volteggiava in una nuvola di sangallo azzurro.
L’aveva cercata tra la gente che tornava a casa ubriaca di speranze e di voti fatti a un dio svogliato.
Le aveva offerto le parole di fuoco del grande poeta e le stelle accese sul ciglio bollente dei crateri.
Era arrossita d’imbarazzo infantile, scavando semicerchi nella polvere della strada, poi lo aveva preso per mano per poter sfuggire alla prigione delle rigide convinzioni della sua famiglia di inflessibili banchieri calvinisti.
Forse lui era l’unico che l’aveva lasciata vivere senza giudicarla.
Non l’aveva rimproverata, inciampando nelle ciotole piene d’acqua di fiume per dissetare gli spiriti e, soprattutto, le concedeva di giocare con le bambole.
Se il vento ricopriva il villaggio di cenere rossa, sua moglie usciva di casa con un borsa di stoffa marrone che imbottiva di lapilli quasi fino all’orlo.
Questa è la tua nuova bambina
E aveva il tono perentorio, prostrato e soddisfatto della puerpera.
Eneas abbandonava il lavoro e mischiava erbe secche e fuliggine per cucire e modellare la fisionomia dell’ennesima principessa muta. Lynn non sarebbe mai rimasta incinta, ma andava bene così.

L’impagliatore ora ricorda ogni momento con la precisione sconcertante del rimpianto. Un ritornello che lo tormenta e non lo fa riposare: non avrebbe dovuto permetterle di scalare la montagna per cogliere fiori.
Si era persa, vagando nell’oscurità di boschi troppo fitti per i piedi degli umani. Magari aveva pianto fino a consumare la propria disperazione e poi si era addormentata nel verde intenso di una radura.
L’avevano trovata i cacciatori, tra le foglie rosse di ottobre e lo avevano chiamato. Ma un uomo non può reggere un peso simile e lui aveva smesso di vedere per non dover contemplare lo scempio immondo della Natura.
Aveva preso solo il sacchetto ed era scappato.
Ricreare la sua bellezza diafana era diventata un’ossessione abbagliante, finché le dita dell’esperienza avevano confezionato un minuscolo vestito di gala e la bocca tremante aveva immaginato un nome per il delicato odore blu di flora lavica.
Alisa.
Intrappolata con le sue sorelle silenziose in una delle cento stanze chiuse a chiave dalla solitudine e dalla rovina degli anni.
Giocattoli con uno scricchiolante cuore di passato remoto, da venerare con essenza alla vaniglia e micro-tazze di tè inglese.
Dando corpo al fantasma dell’amore eterno, l’aveva pregata di accompagnarlo nel pericoloso viaggio nel labirinto contorto della memoria. Per sapere in quale camera accendere le candele del ricordo.
Non conta più, lief. Non conta più.

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