«DHA-DHA| TIN-TA:
Anche il linguaggio del tamburo ha la sua grammatica» Spiega il musicista
indiano seduto per terra su un cuscino bianco. Indossa una tunica color
zafferano sui pantaloni larghi e i suoi piedi sono grigi, come se avessero
assorbito la polvere della strada. Stende un ammasso di pasta su un lato dello
strumento: a sinistra una voce metallica; a destra il suono ovattato dell’acqua
in fondo a un pozzo. «La farina italiana non va bene, non si attacca. Good for
pasta, no good for samosa!». Ha un sorriso splendente e regolare e la morbidezza
cortese di un impiegato del ministero delle poste.
«KITE-DHA|DIN-TA:
La musica tradizionale dhrupad è nata come meditazione, in totale accordo con
la Natura» dice il fratello nel suo inglese cantilenante e riflessivo.
Penso ai George Harrison e ai Kula Shaker; ai Taj Mahal
Travellers e al fresco concerto di un bosco di bambù in agosto (rin-rin). Il tanpura canta alcune note
tra le mani di una ragazza occidentale bella come una fata. Le tessere di un
mosaico colorato brillano nella luce bassa della sala. Chiudo gli occhi e
sincronizzo il cuore.
Vedo un uomo in barca sul Gange, il tramonto caldo di
Varanasi … la sovrapposizione sbagliata di una foto di McCurry …
… Due giorni dopo, fluttuando sulla ritmica, i miei battiti
cercano un’altra sintonia. Rallentati e silenziosi aspettano l’inizio di un’altra
performance. Il maestro si sta preparando nel cortile del palazzo dei dogi; le
sue allieve si stringono le fasce rosse intorno alla fronte. Hanno braccia
sottili come ramoscelli. Mi chiedo come faranno a suonare con energia,
chiamando a raccolta tutti gli antenati, ma ecco i primi colpi, le grida
gioiose. Sono sicura che gli dei sentano forte e chiaro.
“V’invoco, Signori di questo mare. Vi prego, divinità
addormentate nella tranquillità dei templi a diecimila duecentosessantasette
chilometri da qui. Cavalco sulla virgola di quella distanza spropositata (un
arco sui paesaggi d’Europa) e vi vengo a cercare, muovendo il ventaglio nel
cerchio della danza”. Non sono più tra le ragazzine piene di eco-dead equi e
sostenibili; spariscono le signore con le loro sete radical-chic.
Torno indietro a un posto remoto. Nel parco illuminato dalle
luci mutevoli della fontana, un uomo stava saltando gli spaghetti sulla piastra
nera del suo banchetto: nell’aria il profumo denso dei calamari alla griglia,
lo stesso odore caldo e appiccicoso dei giorni d’infanzia passati con Altair in
un porto ligure. E quel ristoratore concentrato nell’arte di rivoltare soba e
verdure gli somigliava persino, a mio padre, come in un incantesimo orientale.
Una statua di Ampanman – l’eroe-focaccina – proteggeva la festa dagli alieni
malvagi. Allora avevo sorriso guardando le stelle.
«Cosa sta scrivendo?» È la domanda di Annie a riportarmi
bruscamente nel presente. Scruto i ghirigori d’inchiostro che il maestro sta
tracciando su un foglio seguendo il sospiro raffinato dello shamisen. Socchiudo
gli occhi, sforzando la memoria. Non devo sbagliare, se non voglio sembrare una
stupida analfabeta … «Beh … prima ha detto che avrebbe scritto una poesia di
Bashô, giusto?», lo sto chiedendo a Erin, una delle tante “Me Stessa”, quella
che ha vissuto in Giappone e ha cenato alla Corte segreta dell’Imperatore.
Poi mi butto, velocemente: “Un vecchio stagno / Una rana si tuffa / rumore d’acqua”. Provo a
decifrare gli ideogrammi che scorrono sulla carta – da destra a sinistra,
dall’alto verso il basso. Assaporo la fatica della vittoria, il contatto con la
bioelettricità intrappolata nei riccioli biondi di Annie.
«Incredibile! Tu davvero capisci quelle macchie di colore?»
Annuisco, ristabilendo il silenzio mentre lei mi guarda con un lampo di
ammirazione. Anche il suo amico, appoggiato a una colonna poco più in là, pare rapito
dalla magia dei segni e mastica l’idea di infilare il flauto dolce nel prossimo
pezzo della sua band, ridacchiando sugli ovvi doppi sensi.
«Dopo andiamo al suq? C’è un ragazzo che fa gioielli con le
posate! – Una figata! – … E poi ci saranno altri spettacoli di musica etnica»
Mi dice lui lisciandosi la barba castana (sembra il protettore celtico delle
messi, con gli occhi chiari e una birra in mano).
Guardo il ritaglio di cielo sopra di noi «D’accordo,
andiamo!» dico rivolta alle le stelle che “tremolano” come da copione.
Al mercatino del porto tra i pannelli di legno di una
scenografia scrostata, un uomo volteggia
abbracciato dalle ali nere del suo poncho andino mentre una ragazza grandi
cerchi d’oro le attraversano i lobi – offre un mazzo di campanule amancaes agli
astri addormentati e balla percuotendo la polvere. Confusa in mezzo ai curiosi,
seguo lo schema basilare dei passi. Anch’io sono figlia della Terra, anche il
mio sangue è rosso.
http://youtu.be/p4G2RlBKbrMhttp://youtu.be/9QZOHzWLF9w
( http://youtu.be/xsCQTraCHmA )
http://youtu.be/a9eNQZbjpJk
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