lunedì 19 gennaio 2015

THE HONEY PRINCESS WITH HER YELLOW SUNFLOWERS


Dov’è finito il miele, ora che la Principessa vorrebbe aver ritrovato un po’ del suo coraggio?

Ne avevo un po’, in confezioni monoporzione sigillate, ma dev’essere sparito secoli fa, inghiottito dai blocchi di zucchero bruno che ogni tanto Cassy scioglie sul fuoco … E poi, anche se lo avessi scovato sul fondo dell’armadio, sarebbe stato troppo antico (incrostato e alterato come resina fossile).

Inutilizzabile.

Eppure quel vuoto nella dispensa mi ferisce. Mi pare qualcosa d’innaturale, come fissare il display del cellulare, scoprire che sono già le 11.18 e che in casa non c’è nessuno, pur essendo sabato.

«Domani ho un appuntamento in ufficio». Quando Cassie me l’ha detto ieri sera, ero già mezza addormenta davanti a un documentario sull’assassinio di JFK (La testa che esplode come un papavero in Dealey Plaza, Jackie con il suo tailleur rosa che si sporge sul cofano della macchina a raccogliere un frammento del cranio del marito. Oswald e le mille teorie del complotto)

 

E quindi adesso sono qui, sola. Anche se avrei bisogno di dolcezza. Anche se sono malata.

Da un paio di giorni covo l’influenza, ma ho tentato di addomesticare i bacilli per non perdere il ritmo delle cose da fare in giro – fuori – con il termometro che comincia a scendere, gli autobus fermi nelle rimesse e la città che così è un po’ più spettrale.

I cortei sono l’unico movimento che anima le strade e i telegiornali nazionali mostrano i fumogeni rossi che confondono i volti, ma tutto sembra lontano, irreale.

Non che m’interessino le vertenze sindacali che naufragano con regolare faccia tosta, nella Sala Chiamata del Porto. Da quasi due anni non uso i mezzi pubblici per una sorta di protesta contro il sistema: biglietti sempre più cari e bus sempre più radi e malandati. E poi, ovviamente, c’è la convinzione che “camminare non può che farmi bene”, dato che continuo a cercare un modo per venir a patti con me stessa.

 

Ho la testa pesante e calda e i passi sono di piombo mentre mi dirigo verso la cucina per preparare un mate e riscaldare ancora il fido Gatto Ciliegia (contro il grande freddo). A volte si è chiamato anche Gatto Polenta, in omaggio a certi stufati alla vicentina ma oggi – con le pupille nere e il collo floscio – esce dal forno con un odore invernale che non lascia dubbi e mi sembra diventato il mio solo alleato, col corpo marrone, bruciacchiato(potrebbe essere il protagonista di un adagio popolare).

C’è un pacchetto di sigarette sul tavolo e i fornelli sono sporchi. Trattengo un moto di fastidio. Cassy mi ama – chiunque potrebbe testimoniarlo – ma a volte è sciatta, come se si fosse lasciata andare o non le fosse mai importato.

Controllo di nuovo le provviste ammassate in disordine sui ripiani dimenticati: in realtà credo che non avrei usato il miele, anche se lo avessi avuto. Probabilmente la paura mi avrebbe bloccato ancora.

Da poco ho scoperto la gioia infantile di una vera torta, grazie ai consigli di Annie, le chiare d’uovo dentro a un cartone da litro e persino gli usi terapeutici dell’olio di girasole,misurato con mano tremante sulla bilancia elettronica (Lo agito un po’ prima di versarlo, lo peso con cura millimetrica, rimetto la bottiglia in frigo. E ogni volta rivedo Erin persa in un campo di fiori giganteschi; Gialli quanto un dipinto di Van Gogh; Improbabili, appena dietro i sentieri del parco di Hibiya.)

Mi sono concessa anche un pizzico di stevia, tanto per sentire un soffice sapore domenicale sulla lingua. Ho scattato una foto e ho quasi pianto, sentendomi finalmente libera di gustare un piatto quasi normale, come se mi fossi comportata bene e ci fosse qualcosa da festeggiare.

 

Il mondo ondeggia e va in pezzi. A ci sono delle giornate piacevoli, con lievi folate di gratificazione (che durano tre minuti prima di dissolversi): qualcuno apprezza un pezzo che ho scritto e mi paga un coffee in un bicchiere di carta rosa; un artista della galleria vorrebbe farmi un regalo; la mia collega mi abbraccia, mi solleva e mi fa ruotare come un piccolo koala poi mi mette giù, e ha le guance rosse e gli occhi accesi.

«Che bello il tuo ciondolo!» Indica un pupazzetto che mi pende al collo. 

L’avevo comprato alla fiera di Lucca e ne avevo preso uno simile anche per Megami, la mia migliore amica.

Che sta per andarsene con un equipaggio di pirati indonesiani.

 

Sono felice per lei ma il senso d’abbandono si agita feroce nel mio cuore ogni volta che l’idea so affaccia alla mia mente e che provo a distrarmi.

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