Metto i vestiti alla rinfusa dentro un borsone a scacchi da
detective londinese, senza pensare: dieci mutande, cinque paia di calzini –
tanto sono tutti neri – due pantaloni.
E poi t-shirt per ogni possibile variazione climatica. Per
me le partenze sono una piccola morte. Sì, con lo stesso valore doloroso e
piacevole che ha l’orgasmo per i francesi. Si arriva al culmine, si sfiora il
parossismo isterico dell’ultimo abbinamento ma poi, se non si dimentica nulla
di fondamentale, ci si può rilassare pienamente.
Non sono un tipo da campeggio avventuroso, io. O almeno, non
lo sono più da tempo. Non mi riesco ad abituare alla vita nel fortino del
romitaggio rurale: m’infastidiscono le maniche corte delle maglie infeltrite e
urticanti, le provviste sporche di ragnatele, l’acqua da far scorrere nei tubi
per togliere la patina marroncina del ristagno… Non potrei stare troppo a lungo
lontana dalle news, dalla tecnologia e soprattutto dagli scaffali carichi di
libri ancora da leggere ( purtroppo viviamo in un Paese che sarebbe comico se
non fosse tragicamente reale e l’unica soluzione, dopo aver guardato il
telegiornale, è spegnere la tv e riprendere il filo di un romanzo).
Ho preso tutto? La valigia per tre giorni assume proporzioni
elefantiache mentre le cartelle di file intasano un esercito di penne USB. E
poi devo scegliere con cura i pezzi da inserire nella colonna sonora per il
viaggio, quelli che dopo condividerò con Samuel, se sarò fortunata e riuscirò a
pranzare serenamente con lui.
Il programma è già stabilito a priori: sei gamberoni,
insalata dell’orto e carciofi freschi «Sono del padre di Tod» …
Mando giù cercando di ignorare il sottinteso.
Mando giù perché sono buoni.
Mando giù vigliaccamente.
Ma c’è spazio anche per i miei piccoli atti di coraggio:
pepe e salsa di soia centellinati alla cieca nel dressing al pompelmo rosa
insieme a 170 grammi di mela croccante.
Il pomeriggio scorre lento, scandito dalla pioggia. Brevi
battute come contrappunto alla musica tenuta alta. Il divario tra me e il mio
semi-fratello minore è troppo grande. E a questo si aggiunge anche un gap di
chilometri di vita quotidiana disgiunta. Per fortuna c’è il rock, e poco altro.
Forse avrei dovuto essere più presente, prendere il treno, telefonare… Prima
della frattura.
Avrei dovuto ingoiare l’orgoglio e colmare gli oceani di
silenzio col mio cucchiaino d’argento. In fondo cosa sarebbe costato? Non mi
accorgevo che gli occhi di Altair erano sempre più grigi e spenti? No, una
figlia non sa vedere queste cose … e ora è finita, nel bene e nel male.
«Sono quasi vent’anni che è morto, no?» dice Cassy
riferendosi a K – il cortocircuito logico è inevitabile «Sì, era il ‘94»
rispondo meccanicamente. Adesso la compilation risuona solo nella mia testa
frastornata, come sottofondo per un poderoso mal di stomaco psicosomatico: Così
imparo a fare la furba e a non controllare i numeri”. Ultimamente mi sto
facendo un po’ troppe concessioni – Avanzo di una posizione, un millimetro alla
volta. Mi spavento. Cado. Precipito. Voglio un’altra prova del fuoco, domani.
Eccolo, “domani”. La cittadina turistica si chiude sulla
vista del porto con le sue barche in secca, il mercato ittico e una mal
assortita legione di calafatai balcanici. Con una piroetta, concludiamo un parcheggio
sotto la nuvola stratificata d’aghi di un pino marittimo, nello spiazzo di un
ristorante. Non amo i posti di riviera
fatti con lo stampino, ma l’aria è pulita e limpida e finalmente sembra
arrivata l’estate.
«C’è di bello che qui
c’è più cielo!» mia madre torna bambina, ride, scherza, s’intride di sole.
Nemmeno le mie lacrime la sconfortano e mi tira su di morale
per i cibi meravigliosamente giapponesi che non ho potuto comprare alla
boutique del biologico che hanno inaugurato in centro: «Dai, hai trovato
dell’altro! E poi sono sicura che là a Tokyo avrebbero comunque un sapore
diverso. Ci andrai di nuovo, non preoccuparti!» Non mi preoccupo, ma mi chiedo
se sia una consolazione o un’inconsapevole aggravante salata sulle mie ferite
da immobilità, infette come piaghe da decubito.
E intanto i barbari hanno già invaso l’ultimo avamposto.
«Sono proprio un grebano» dice l’uomo
con la falciatrice rotante, e nel suo tono divertito c’è quasi vanità, o forse
è rassegnazione di fronte all’abisso che ci separa? Si tira su la maschera di
plastica protettiva spazzolandosi con la mano la tuta macchiata d’erba. Tento
d’ignorare i suoi tentativi di conversazione. L’odore del prato tagliato mi
solletica le narici impedendo qualsiasi forma di concentrazione. Il terrazzo
intorno a me si è riempito di trucioli sparati come proiettili e,
fotografandomi da fuori, mi sento la superstite di un terremoto sudorientale
che scava tra le macerie. Mentre gli argomenti languono a monosillabi
unilaterali, al piano di sotto Lou sgombra le cantine trasportando un enorme
zangolatrice di legno tarlato risalente al pleistocene della memoria contadina.
Torno alle parole stampate sulla pagina. Non riesco a concepire il puro lavoro
fisico senza traccia di uno scatto mentale. Alzo il volume della radio per
contrastare il rumore delle lame che hanno ripreso a ruotare assassinando
margherite e soffioni.
Centinaia di desideri spezzati.
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