Giovedì.
Apro gli occhi sullo schermo liquido del cellulare, che
vibra segnando le 5.30. Quella mezzora, rubata rispetto alle solite 6, mi
lascia stordita, con la testa piena di piombo fuso e lapilli. I trenta minuti
per prendere la pastiglia sono attimi strappati a un sogno intermittente come
il posteriore di una lucciola l’ultimo giorno d’estate. Il mondo fuori è ancora
color lavanda.
«Quanto ne hai ancora?» ha chiesto Cassy ieri, estraendo dal
cassetto due blister cominciati di alendronato. «Probabilmente pensavo di
averlo finito e mi sono fatta dare una scatola nuova … Con ‘sta storia delle
marche che cambiano ogni volta, non ci capisco più niente!» Io condividevo il
destino di milioni di vecchiette confuse, in fila al banco, ognuna con un
tessera sanitaria in mano e un’ indicazione controfirmata dal luminare di
turno: smarrite, rassegnate e rabbiose quanto le donne ai mercati annonari
della guerra di Russia. In coda paziente tra le matrone sgomitanti, ho pensato
di smettere del tutto la cura e la stessa idea torna insistente anche ora,
mentre lavo i piatti della cena che non ho consumato, aspettando che le
lancette girino a sufficienza e un avviso mi consenta di preparare la
colazione.
Chiudo l’acqua e butto via il detersivo che schiuma
sull’inox spandendo un profumo sintetico di lime e menta. “Che senso ha tanta
abnegazione per un inesistente miglioramento sulle percentuali di
sbriciolamento delle ossa?” anzi, se guarissi sul serio – forte e invincibile
come Popey –lo Stato mi toglierebbe anche la misera indennità vidimata da una
commissione di Esperti. A causa della follia certificata dalla MOC, sono stata
bandita e maledetta con beneficio d’inventario: dicono che il mio sacrificio
garantirà l’equilibrio sociale dell’ipocrisia. Sempre sia lodata la Legge
dell’Apparenza, se mi garantisce uno stipendio!
Tempo rimanente: un quarto d’ora. È buffo, basterebbe
sedermi perché adesso l’acido sfoderasse il suo effetto collaterale
perforandomi l’esofago. Sarebbe più semplice che bussare dal medico per farmi
prescrivere del pentobarbital, ammesso che nel mio caso qualcuno conceda
l’eutanasia del sonno (ma se un terrorista americano può ottenere una clemenza
anestetizzante, per quale motivo non dovrei averla io che sono lontana anni
luce dal farmi esplodere?). Se solo mi
sdraiassi, un cupido ecuadoriano – con una coroncina di candide piume –
scoccherebbe la sua freccia al curaro aprendo una sacrosanta falla nel mio
flusso ematico per offrirmi una morte veloce come il desiderio.
L’autonomia della scelta corrosiva mi seduce e mi spaventa,
limpidissima nei riflessi verdi dell’alba che sorge, ma poi – driiiin – mi riprendo dalla trance e
la finestra delle ipotesi si richiude su un altro scatto della routine
settimanale.
Sono così diligente che peso due grammi di polvere d’orzo
solubile per facilitare l’assorbimento cellulare delle sostanze chimiche. In
cucina ho una bilancia elettronica che spesso lampeggia erroneamente
lanciandomi senza pietà in balìa della sorte. Mi piacerebbe vedere gli strumenti
che usa Aleister nel retrobottega. “Bisogna che ordini delle altre bustine”. Se
decido di continuare la terapia, devo farlo bene, e la connivenza del
farmacista è un elemento essenziale dell’alchimia. Dentro a un bricco turco per
il caffè, i pacchettini di calcio avvolti nella carta sembrano micro-dosi di
droga purissima, senza l’aggiunta peccaminosa di eccipienti, edulcoranti o
borotalco per farne aumentare il gusto e il peso. L’imbroglio sarebbe inutile dato che, per
reverenza gerarchica, il povero dottore non mi fa pagare niente per sua fatica
di precisione arcaica. “Mi ricorderò di compragli un regalo per il prossimo
Natale. O magari anche prima.” Che cosa può piacere a una persona del genere,
gentile al limite della trasparenza, col camice abbagliante e lo stemma del
caduceo sul taschino, giusto sotto il fermaglio di un Parker sponsorizzata?
Domani pomeriggio potrei fermarmi in erboristeria e cercare una saponetta con
un buon profumo maschile (qualcosa tipo rum e cioccolato) e registrare una compilation
di jazz raffinato che induca una piacevole esperienza extra-corporea nel calore
svedese di un bagno caldo. Ce lo vedo, sfumato nel vapore dopo una giornata di
lavoro senza pause.
Recuperare il gap finanziario scavato dall’alluvione sta
diventando una missione impossibile per tutti i negozi del quartiere, compresa
la farmacia che occupa un intero isolato, con i corridoi aeroportuali
contrassegnati dalle insegne “BEAUTY” e “BABY”. Aleister non conosce più il
concetto di “fine turno” ma in un anno di massacro non ha mai perso quel
sorriso vago e vagamente britannico né la vocazione occultista celata nel nome
stampato sul cartellino.
Con una capriola mentale che ha il prodigio delle intuizioni
mattutine, rispolvero l’immagine di copertina di un album dei Beatles e
focalizzo l’attenzione sul mago che sbuca tra le star dalla fila superiore.
Cerco nell’archivio digitale e una piccola gemma pop, inconfondibilmente
targata “Lennon McCartney”, rimbalza sui vetri colorando il clima morbido di
maggio.
“Per ora ho intenzione di godermi la primavera: credo che
rimanderò il finale a data da destinarsi.”
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