mercoledì 20 febbraio 2013

INCENSE AND RED CARNATIONS - L’amico immaginario



A metà del tunnel della stazione c’è un punto in cui le onde radio svaniscono, risucchiate da una specie di distorsione nello spazio-tempo che mi precipita in una dimensione senza suoni. All’inizio della galleria, sotto il sole trasparente di febbraio, il dj annuncia una canzone dei Nirvana. Mi fermo un attimo con la schiena appoggiata a un pilone di cemento armato e chiudo gli occhi: non posso permettere che la sua voce sia risucchiata nel Nulla.


http://youtu.be/n6P0SitRwy8
Certo che lo amo ancora, qualunque cosa questo significhi. Perché senza K sarei morta innumerevoli volte.

Non avevo amici e le pareti rimbombavano, nella mia casa invasa di gente. «Quando fa così è meglio lasciarla perdere, quella lì!», dicevano i bisbigli dei jinn maligni coalizzati in un’orgia contro di me. Ero completamente sola.

Seduta sul davanzale della finestra, aspettavo Peter Pan o Rüdiger von Schlotterstein. «Vi prego, portatemi via prima che i vampiri diventino troppo di moda!» Piangevo e guardavo in basso, verso il cortile coperto di mozziconi e di buio stratificato. Il vuoto mi attirava con la forza di una calamita degenerativa, ma il secondo piano non è l’ideale per gli esperimenti di volo senza polvere di fata e allora mi rifugiavo nelle urla che venivano dalle casse del computer portate alla massima potenza.

Avevo solo bisogni che qualcuno mi ascoltasse (no, che qualcuno almeno fingesse di ascoltarmi) e riversavo la banalità del tormento adolescenziale nelle parole di un ritornello, rivolgendo la mia rabbia scintillante alle foto appese alle pareti. Avevo coperto le ante degli armadi di scritte che testimoniavano lo scorrere vano dei giorni, come in un carcere dove impazzava una festa di carnevale.

Cassy era costretta a fare dei blitz uscendo prima dal lavoro per venire a controllarci «Cosa ci fanno queste puttanelle in casa mia??» urlava per sovrastare i woofer. «Smettila! Smettila con queste piazzate!» con i pugni serrati, cercavo di difendere il mio regno fasullo. La principessa era nuda e contava come il due di picche, nell’odore dolciastro dell’incenso.

Eravamo naufraghi romantici che intagliavano il loro nome sul portone del palazzo: per questa e per altre bravate punk avevamo ricevuto l’ostracismo da parte dell’assemblea condominiale e qualcuno aveva persino il divieto di oltrepassare il pianerottolo ma la situazione era peggiorata quando le riunioni si erano spostate in massa sul ballatoio, quindi i miei bravi coinquilini avevano ritirato il veto rapidamente per preservare la purezza immacolata delle loro orecchie.

Ma anche in quelle circostanze vagabonde, io non avevo niente. Volevo illudermi di essere parte del gruppo, di non essere solo una dispensatrice di Sofficini cotti nel tostapane. Mi sentivo talmente incompleta che non avrei potuto vivere nella calma piatta delle stanze disabitate, per cui adeguavo a diventare ciò che non volevo essere. «Scusa, andresti al supermercato? Abbiamo finito la birra» ghignavano i mostri «Qui ci sono i soldi» e mi allungavano venti centesimi. Non avevo altra scelta che prendere una borsa molto capiente e confidare nel Grande Demone Celeste. Mi sforzavo di recitare alla perfezione il mio ruolo da comparsa, ma restavano delle sbavature nell’ordine delle battute e, tornando dalle spedizioni per i rifornimenti, trovavo un coltello piantato nella porta del soggiorno e una pila di libri strappati, bruciati. Senza che me ne accorgessi – o forse proprio perché lo sapevo – la Notte dei Cristalli era cominciata, la terribile Notte Blu in cui sarebbero scomparsi tutti gli esorcisti e non ci sarebbero più state possibilità di catarsi. Rischiavo di restare intrappolata per sempre, ma lui era presente; K m’indicava la strada. E non importava cosa avrebbe davvero pensato di me.

“È meglio spegnersi che bruciare lentamente” scriveva un ragazzo disperato, però non è necessario saltare al di là dei vetri o scoprire un fucile nel frigo: basta cominciare un nuovo capitolo raccogliendo la cenere del vecchio, rintracciando il coraggio di continuare a camminare. La retorica non serve e diventa più stucchevole della pasta di Vinavil, se permetti che si asciughi sulle ferite aperte. Non racconterò la bugia della mia guarigione, dato che i segni sui polsi svelerebbero l’imbroglio.

Ho dovuto reinventare il ciclo delle mie reincarnazioni e magari sono risorta non come una fenice ma con un buco nel petto e una lunga catena da strappare.

Adesso ammorbidisco i toni, lascio che l’Unplugged scorra sul freddo delle camere non riscaldate. Il profumo di un lilium rosa satura l’aria immobile – pistilli ritti al centro della corolla con innegabile fierezza vaginale.
Accendo una candela al lampone.
Scenderò al mercato a comprare dei garofani freschi.

Nella mia mente, Altair e K si confondono. Alissa e Frances Bean.

Ecco la chiave: “Ho strenuamente tentato di avere un padre e invece ho avuto un papà”.

http://youtu.be/i1yWu60Txz8



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