Potrei facilmente usare una frase come ritornello per
esprimere i sentimenti che scoppiettano come bolle in superficie: “Certo che lo
amo ancora, qualunque cosa questo significhi”.
Potrei citare di nuovo Auden, e sembrerei solo un’inguaribile
romantica, attaccata a un fantasma che nemmeno conoscevo.
Ma no, ho deciso di stupire tutti uscendo dal seminato e
prendendo in prestito un’altra canzone, un’altra oscurità. “Stop me, oh, stop me /Stop me if you
think that you've heard this one before / Nothing's changed / I still love you,
oh, I still love you / ...Only slightly, only slightly less than I used to, my
love” cantava la Regina prima di morire.
E io non ho nulla da dedicare a K, se non i soliti riti di
tristezza-barra-autocommiserazione che mi fanno diventare un po’ come lui. E
cerco di capire. Cerco di capire qualcuno che non ha scelto di morire ma ha
semplicemente trovato una botola nel sole e un fucile nel frigorifero. Posso accendere
incenso e mettere sul piatto delle offerte le emozioni che vengono dal profondo
del cuore, dalle viscere brucianti, dalle mie uova fossilizzate (uova di drago,
uova d’angelo appena sotto la pelle, nella zona compromessa della femminilità).
La gente ha innalzato a spettacolo circense gli spasmi che
seguivano quella neve bianca che si scioglieva nelle sue vene e la visione di
una scatola di farmaci vuota – Sexus, Nexus, Plexus … Fluxus. Tutto può essere
esposto come una curiosità televisiva: i moderni aruspici prediranno la
disgrazia nell’infezione delle interiora calde ma al momento del martirio
spegneranno i riflettori. Mi preoccupa il dono dell’ubiquità che hanno certi
morti non estinti. Non parlo di luoghi fisici, della polverizzazione del corpo in
un mausoleo buddhista, tra le foglie autunnali di un parco o dentro
l’imbottitura di un orsetto di pezza, ciò che a volte mi turba è la presenza
molecolare del pensiero che resta ad aleggiare nello smog delle città, nei
frammenti minimi della storia. Tiro le fila di queste speculazioni filosofiche
mentre il segnale orario oltrepassa le quattro e, dalla radio, la Vedova mi
violenta le orecchie. Dovrei spegnere e prepararmi per uscire, ma aspetto che
parta la canzone successiva: non voglio che l’impurità si accumuli come
cerume.
Faccio girare nel microonde il Gatto Polenta pieno-pieno di semi
di ciliegia, per avere un po’ di conforto tiepido. Bevo mate al limone. Ho
ricordi di carta e ritagli di famiglia. Niente che possa soddisfare il
principio dello Scambio Equivalente. Mi annullo. Mi vesto di nero, scendo al
mercato, compro peperoni rosso / verdi per la cena di Cassy.
Protetta da un’armatura anti-radiazioni, cucino il mole messicano
da accompagnare a un hamburger di pollo: peperoncino, cioccolato, cannella,
cumino, arachidi …
Le vacanze della figlia di Hortensia lasceranno un retrogusto
amaro nella salsa: «Quest’anno andiamo in Yucatán» … Un villaggio turistico a
pochi passi dalla meraviglia ed io bloccata in perenne stand-by. È così inutile
sprecare la mia totale devozione di viti e trazioni ortopediche con la tortura
dell’immobilità!
In strada, un’incerta perifrasi mi aveva raggelato: «Ti vedo
meglio» Mi sto ancora allenando ad accettare l’evidenza dei fatti. È un lavoro
difficile – un passo avanti e due indietro. È come saltare sulle canne di bambù
appuntite per non cadere nelle fonti maledette dell’antica Cina: se scivolo
perderò la mia identità. Qualcuno mi voleva prescrivere un sostegno morale
sintetico ma sono scappata, correndo sulla corda del funambolo, sfidando le
pozze con il mio volo marziale.
Ci vuole coraggio anche per varcare la
soglia della decisione. Se ti trema la mano e non hai un compagno fidato con
una spada, non ti resta che procedere da solo da sinistra verso destra e poi
spingere la lama in alto.
Oppure vivere per sempre con il tuo peso.
http://youtu.be/hTWKbfoikeg
http://youtu.be/naos7it_bl0
http://youtu.be/WF466sNuCbE
http://youtu.be/curus9CZxag
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