La gente mi viene incontro in gruppi disordinati: è la confusione del centro il sabato pomeriggio. Delle ragazzine bionde si avvicinano in un coro cacofonico di risate squillanti e colori mal abbinati che seguono la malsana moda delle “mutande di jeans”. Alcune mettono in mostra, con disinvoltura quasi pornografica, quarti di carne debordanti da striscette di stoffa e top di Toki-Doki ultra deformati da seni quinta misura; altre mi fissano e sghignazzano (“Che figa!”, rivolte ironicamente al mio abitino di pizzo nero).
È facile ridere quando hai curve da pin up anoressica e stringi la mano di un tipo che sembra Seeley Booth in bermuda, neanche fossimo a Miami. Assomigliano a tante Skipper, sorelline adolescenti di Barbie – per sempre intrappolate in una pubertà provocante da lolite.
Da bambina non mi piaceva giocare con le mie compagne. Mi annoiavano le loro zuccherose storie di matrimoni, casalinghe e mariti innamorati che portavano a casa mazzi di fiori freschi ogni sera. Io avevo un solo Ken, circondato da un harem di belle sventole, e una Skipper (l’avevo chiamata Jennifer), pronta a rispondere ai desideri più perversi di quell’unico uomo di plastica.
Ho scritto che “ho riservato a K tutto l’amore che può esistere in questo triste mondo”, ma non è ontologicamente corretto e io "amo troppo i fatti per permettermi di distorcerli".
Mentre ascoltavo le mie coetanee scambiarsi le loro esperienze, con dovizia di particolari ingenuamente sgradevoli, mi domandavo perché a me non capitasse mai nulla di anche lontanamente erotico o sentimentale. Avevo sognato le nozze in bianco, la torta alla panna con gli sposini di zucchero e il bouquet da lanciare voltandomi all’indietro. Chi l’avrebbe preso? Immaginavo un capannello di amiche al mio fianco, pronte a gettare confetti rosa, riso e petali. Poco importa chi fosse il mio lui in quelle fantasie.
Poi il tempo è passato e le possibilità si sono allontanate come pagine sbiadite di un brutto racconto e di quell’innocenza mi è rimasto solo il piacere di cercare un nome per i figli delle mie conoscenti, che nascevano come la punteggiatura nel flusso regolare dei giorni. Appena mi giungeva la notizia mi mettevo a riflettere e provavo a immaginare il sorriso di una nuova persona. Facevo i miei calcoli e stabilivo quando sarebbe nato il bimbo, m’informavo sul colore del fiocco e poi cercavo nel magazzino della mia memoria un nome che suonasse adeguato, come la nota di un campanellino individuale. Per le femmine non c’erano problemi: Alice era sempre la mia prima scelta; e poi c’era il fascino dei nomi giapponesi legati alle stagioni: Fuyumi (冬実) se fosse arrivata in inverno, Natsumi (夏美) per l’estate, Harumi (春美) per la primavera, forse Akimi (秋未) per l’autunno (ma le possibilità erano pressoché infinite). Per i maschietti era un po’ più difficile ma sfidavo la mia mente a trovare la parola giusta. Il fatto è che quasi mai le mie amiche mi davano retta ed io ero costretta a guardare in faccia una realtà distorta, in cui avevo sostituito la vita pratica con quel gioco intellettuale.
Solo una volta mi è passato accanto un barlume di proposta, ma era ormai troppo tardi: quando è successo avevo già smontato me stessa e idealizzato Iris oltre qualsiasi limite umano, tanto che mi aveva scioccato scoprire che anche lei dormiva e mangiava come chiunque altro. Guardandola risvegliarsi con la bocca semi-aperta, avvolta in un pigiama di flanella, ero scoppiata a piangere senza riuscire a fermarmi e la poverina si era scossa da quel primo torpore che appesantisce le palpebre e mi aveva indirizzato uno sguardo pieno di apprensione interrogativa.
Allora, avevo sentito un peso sul cuore, poi un vuoto, poi il piacere maligno di vedere quella strana tristezza su un viso che avevo considerato perfetto e che invece si era rivelato pieno di pecche, nella luce implacabile del mattino (Mi piacerebbe sai /
sentirti piangere / Anche una lacrima / per pochi attimi).
C’era stato un altro sbalzo nelle mie emozioni, un sottile passaggio dalla malinconia alla crudeltà.
http://www.youtube.com/watch?v=HDmB-90q4ok
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