Ecco arriva l’alba. So che è qui per me, meraviglioso come a volte ciò che sembra non è.
4.45 L’allarme del cellulare comincia a trillare con la sua allegria fuori luogo, quando il buio oltre la finestra semiaperta è ancora troppo fitto.
Apro gli occhi come un robot che deve oliare gli ingranaggi prima di funzionare e mi colpisce di nuovo, netta, la voglia di una colazione “normale” (con una brioche calda e un caffè macchiato alla cannella). Ogni tanto mi capita: mi alzo con la sicurezza che sia il giorno buono, pensando che potrei anche uscire e cercare un bar o un forno aperto e fregarmene di tutte le paure, e dei numeri, e delle conseguenze, e delle seghe mentali.
Poi però l’impulso torna indietro. Forse Eloisa, con i suoi turni di notte per le strade della città addormentata, saprebbe dirmi dove trovare un posto per comprare qualcosa di dolce a quell’ora impossibile, ma mi pare davvero complicato: telefonare, superare gli imbarazzi del segreto svelato, chiedere, magari farmi accompagnare …
No, faccio scaldare l’acqua nel bollitore, peso il Nescafé e intanto m’illudo che se fossi in Giappone sarebbe più semplice.
Nell’estate delle piogge, arrivavo al Lawson’s infondo alla strada, ancora in pigiama, e prendevo una bottiglietta di tè e un onigiri (splendido cosa ti consenta di fare un involucro con delle rassicuranti cifre stampate sopra!) e tornavo alla mia stanzetta per prepararmi ad affrontare la giornata. Dal lunedì al venerdì salivo sulla metropolitana fino a Gotanda ed entravo al Consulado Geral do Brasil per le mie interviste; il sabato mi dedicavo a qualche faccenda domestica con la goffaggine di una single che non ha mai caricato una lavatrice e improvvisamente assapora la soddisfazione di svelare il mistero di una lavanderia a gettoni e scopre la formula magica per la raccolta differenziata dei rifiuti.
Adesso, mangiando una fetta di melone maturo, rivedo gli scaffali del konbini pieni di merendine e di melonpan soffici e coperti di biscotto fruttato. Se fossi là, potrei trovare il coraggio. Per precauzione, rimarrei fuori con il mio bottino, accanto ai cestini di metallo con l’imboccatura cerchiata di rosso / verde /blu. Così potrei tornare dentro nel caso che la crisi di rigetto fosse troppo violenta. Le due commesse erano diventate come vice-mamme per me, uccellino smarrito nella grande metropoli. Avevo imparato a cinguettare una frase che avrebbe dovuto suonare tipo: «Susi, non posso mangiare né zuccheri né carne. Questo va bene?». In cento occasioni mi avevano aiutato a uscire quasi indenne da un’intricata foresta di segni.
L’8 maggio, avevo tentato di spedire un biglietto d’auguri dall’Italia, ma nemmeno i volenterosi postini nipponici erano riusciti a decifrare il mio concetto d’indirizzo creativo scarabocchiato sul retro della busta; la lettera era tristemente tornata al mittente sfregiata da un timbro, sigillata da un fuuin
Come se mi avessero restituito i miei demoni, senza appello.
Da quel giorno sono stata di nuovo sola e mi sono resa conto che non avevo mai domandato il nome alle due donne che mi avevano salvato, con la cortesia della loro educazione endemica e la calma della loro divisa a strisce biancazzurre. Se avessi tirato a indovinare, la più giovane sarebbe stata Noriko (che può scrivere con l’ideogramma di “occupato” o con quello di “carità”).
Lei e Shizu passavano la vita in una stanza illuminata di biancore artificiale e sistemavano le confezioni sulle scansie ordinate, in un turno infinito. Ma mi sembrava di vederle trascorrere il giorno libero (perché un giorno libero doveva pur esistere) a tagliare wüstel a forma di polpo sorridente da mettere nel bentô.
Ortensia è la persona più simile a quest’idea di maternità casalinga. Ortensia, con un nome che ricorda le schiere di zie incrociate dei romanzi latinoamericani, ha sacrificato quasi tutto alla ricerca di un caldo nucleo famigliare, esprimendosi solo con la morbidezza dei suoi abbracci e le sfumature delle sue matite che sanno disegnare donne forti come un sogno, trasparenti e floride come decorazioni di Mucha.
Ho l’impressione che Cassidaria sia un po’ gelosa: non di lei ma dell’immagine che io ho costruito intorno a lei. Credo, cioè, che la ferisca non essere parte di quel quadro rassicurante che profuma di sapone alla mandorla, di cucina e di torta paradiso.
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