lunedì 3 settembre 2012

GREEN PARROTS: MEEME’S LOST SOUL

Per me, la voce narrante sono io: la Regina Raflesia con la sua ambiguità morale. Anzi no, sono Meeme con le parole telepatiche disperse dalle vibrazioni di un’arpa cetico-spaziale.


Quel che è certo è che l’estate è quasi finita e a queste latitudini comincia a soffiare un vento fresco – a volte quasi freddo, direi – che ti costringe a cercare una maglia a maniche lunghe da indossare sopra la t-shirt.

Da qualche giorno non riesco a dormire. E questo non aiuta, dato che la settimana scorsa ho ripreso a lavorare stabilmente – o almeno con la tipica stabilità precaria di chi non ha uno stipendio, ma può tenere dei bei biglietti da visita nel portafoglio. Vago da un punto all’altro, letteralmente. Letterariamente. E mi domando se ci sarà mai una soluzione alla fine del percorso. Camminando sotto la pioggia, sento che troverò il mio kôda, l’essere spirituale dell’arcobaleno, meno vivace di Oxumaré, magari più filosofico, meno brasiliano, e più triste. Pesante.

Non riposo.

Esco senza ombrello.

Gli acquazzoni carichi d’urgenza si alternano a ore di vento. Ripenso a quel racconto di Palanhiuk in cui la burrasca portava via con sé tutta la spazzatura possibile, sfracellandola senza imbarazzi sulle reti di filo spinato dei paesi: eccola lì, la tua vita esposta al pubblico giudizio come i rifiuti rivoltati da un gatto randagio. (Se fai fatica a guardare, vuol dire che in fondo sai che quel gatto sei tu; che non avrai un posto dove andare quando arriverà la brutta stagione; che non avrai altro Dio all’infuori della Necessità).

Conto le gocce che rigano i vetri. Vorrei comprare dei fiori freschi e accendere candele per ricordare tutti quelli che non ci sono più. Per ricordare ciò che ho perso lungo la strada.

La mia esistenza sarebbe stata ben diversa se avessi avuto un altro corpo, o un’altra anima da reincarnare ma è inutile pensarci ora, con tanti anni e troppi fallimenti accumulati sulle spalle: la MOC confermerà che sto per sbriciolarmi come un biscotto.

Sono di nuovo in cucina a guardare un paesaggio pseudo-campestre che sa di terra umida. Le foglie hanno assunto un verde brillante e fresco che richiama le atmosfere eleganti di un film thai / vietnamita. Tanto più che dagli alberi arrivano i versi sgraziati dei pappagalli abbandonati: chissà com’è avere una libertà che non avevi richiesto. Forse loro possono volare, o forse le forbici di un negoziante hanno potato loro le ali, condannandoli alla staticità decorativa di una gabbia da salotto, prima di sapere che un bambino egoista li avrebbe gettati oltre il davanzale, nel freddo del mondo.

Cosa mangiano i pappagalli in natura, senza il mix di miglio della Friskes da versare nella scodella vicino alla ciotolina per l’acqua? …

Credo che alcuni si nutrano di sogni … Rubano i pensieri che volano nell’aria e così si colorano le piume … Altri rimangono nella polvere in attesa della vendetta e poi esplodono, portandosi via l’innocenza delle vittime, divorando sorrisi e arti lacerati.

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