«Cosa ne diresti se provassi a fare le umeboshi?» mi ha chiesto Cassy ieri sera «Le prugne in salamoia» ha aggiunto, come se la mia espressione perplessa fosse stata una richiesta di spiegazioni. In realtà io avevo capito perfettamente di cosa stava parlando, ma adoravo le vere umeboshi e sapevo che quella versione fatta in casa, per rispettare tutti i crismi delle mie gabbie numeriche, sarebbe stata solo una pallida imitazione deprimente. Meglio evitare.
Una volta, accompagnando Eloisa tra gli scaffali di una boutique di alimenti biologici, ho trovato un vasetto di frutti pallidi e gonfi di sale. L’ho rigirato tra le mani come se fosse la più preziosa delle tazze da tè del servizio imperiale, ma non c’erano numeri a rassicurare le mie ansie sugli apporti energetici e quei pezzi di frutta se ne stavano lì, a fissarmi, morti come anomali teratomi in formaldeide. Ho posati di nuovo il barattolo.
La mia immaginazione è decisamente troppo malata!
Adesso, lungo la strada mi fermo. C’è una specie di festa di piazza con banchetti di propaganda comunista vetusto-cubana e una band che suona su un palco improvvisato sotto gli alberi, sulla pista ciclabile. Non sono un granché ma ho bisogno della potenza di decibel che ti entra nelle ossa e ti fa tremare dall’interno. Mi sembra quasi di capire il vicino, con quel suo fastidioso rumoreggiare disco: a volte hai bisogno di decibel che purifichino la mente spazzando via i pensieri, come un mantra buddista per scacciare il male. Non conta che si tratti dei bassi di un pezzo ripetitivo o delle grida di una cover band metal / crossover.
Il mio primo impulso è quello di gettarmi nella mischia mentre il cantante sta provando a trasmettere la rabbia rivoluzionaria di Killing in the name of ma questa versione proprio non funziona: quel ragazzino delle medie ha poca forza nella voce, nonostante l’entusiasmo dei sostenitori. Sono tutti energumeni che si dedicano all’head banging tra una spallata e l’altra e per me non sarebbe consigliabile buttarmi là in mezzo, tanto più che ho la gonna.
Mi appoggio allo schienale di una panchina – eleganza in ferro battuto e legno finto-liberty – e muovo anch’io la testa avanti e indietro guardando la gente e provando a fare ipotesi sulle strutture relazionali dei gruppi che si sono formati nel frastuono del momento (Non riesco mai a spegnere del tutto il cervello e riflessioni del genere affiorano continuamente senza che me ne renda conto).
Ai margini del pogo, tre delle bambole del Club dei Sette Peccati Capitali osservano distaccate.
Revy /Rage fuma una Gauloise macchiata di rossetto. I leggins neri corti al ginocchio lasciano intravedere un drago circondato da una tempesta di fiori di ciliegio e i complicati disegni sulle sue unghie americane si muovono nell’aria come una Divinità Elettrica.
E poi Emilie/ Vice con mezzo cranio rasato e una cascata di deadlocks di lana rosso /fucsia che spuntano da sotto il cappello a cilindro – grossi occhiali da aviosaldatore incollati sulla tesa e occhi cerchiati di cajal color fumo, come se ogni sguardo venisse da una nebbia lontana.
E per ultima, quasi in disparte, Ruby /Jealous stretta in una camicia a quadri, pallida, enormi occhi abissali e labbra di fragola matura: è una Capuccetto Mannaro ignara del suo passato. È quello che avrei voluto essere, almeno in parte.
Anni fa, al mio negozio preferito di Harajuku avevo comprato una scamiciata rosa con bottoncini dorati e un delicato ricamo sulla pettorina. Indossandolo davanti allo specchio, con due commesse infiocchettate a farmi da vallette – mi ero sentita come una principessina, avevo fatto un lieve inchino curvando un po’ le gambe all’infuori e non avevo potuto fare a meno di pensare che, se mi avesse vista così, Altair sarebbe stato fiero di me. Razionalmente sapevo che se n’era andato e non ero così sciocca da credere davvero al Meraviglioso Paese Oltre le Nuvole dove si mangiano le pesche dell’Immortalità.
Non poteva esistere un posto in cui non si faceva altro che contemplare la luce riflessa di un dio annoiato, come la neve di uno schermo gigante. Non poteva esistere e quindi nessuno poteva vedermi né sentirmi, ma mi capitava spesso allora (e mi capita ancora) di tornare con la mente alle persone che ho perso per cercare di riallacciare rapporti irrimediabilmente lacerati, e finisco addirittura per scegliere dei libri da regalare a Natale, solo per accumularli sulla mensola della libreria, leggerli e sentirmi sdoppiata, estranea a me stessa.
Ora, dall’altro lato di uno spiazzo che odora di salciccia alla brace, guardo le karakuri-dôji e l’estetica dei loro corpi meccanici. Altair non avrebbe approvato, come non avrebbe approvato la mia idea di un nuovo tatuaggio. Forse in attesa di conoscere il destino da riservare al mio braccio sinistro, avrei potuto farmi incidere una piccola stella onmyôji sulla spalla destra, con una farfalla Ulysses al centro e cinque segni in sanscrito sulle punte.
http://www.youtube.com/watch?v=U7IUA8W8xuM
http://www.youtube.com/watch?v=rR4mTqq80I8
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