lunedì 27 maggio 2013

MODI DI TORNARE A CASA Alejandro Zambra



Esistono momenti nei quali non possiamo, non vogliamo perderci.


Leggere è coprirsi la faccia. E scrivere è mostrarla.

Silenzio bello e riparatore.

Innamorati del fallimento, le ferite erano trofei.

I genitori abbandonano i figli. I figli restano o se ne vanno, ma comunque se ne vanno. È tutto ingiusto, soprattutto il rumore delle frasi, perché il linguaggio ci piace e ci confonde. Perché infondo vorremmo cantare o almeno fischiettare una melodia.

Avevo scoperto un mondo nuovo. Un mondo che non mi piaceva, però era nuovo.

È meglio non essere il personaggio di nessuno. È meglio non comparire in nessun libro. [...] Io ho già preso la decisione di non proteggermi.

Quando scriviamo ci comportiamo come figli unici. Come se fossimo sempre stati soli.

Ho sempre pensato che non possedevo veri ricordi d’infanzia, che la mia storia stava tutta in poche righe.

…. Ascoltare musica, o non ascoltare niente, perché a volte restavo a lungo in silenzio come se apprettassi qualcosa, come se aspettassi qualcuno.

… Una spia che non sapeva bene che cosa voleva trovare. [ …] In quel periodo la gente cercava persone, cercava i corpi di persone che erano scomparse.

… I gesti che faceva, addentrandosi senza paura nel passato. Mi piacerebbe che qualcun altro scrivesse questo libro.

Imparare a scrivere la propria storia come se non facesse male. Questo ha significato per Claudia crescere: imparare a raccontare la propria storia con precisione, con crudezza.

Ximena aveva la faccia di chi aveva sofferto non un giorno o una settimana, ma tutta la vita.

Per quanto vogliamo raccontare storie altrui, finiamo sempre per raccontare la nostra.

È bizzarro, è stupido pretendere un racconto schietto su chicchessia, perfino su se stessi. Ma è necessario.

Scrivendo puliamo tutto, come se in questo modo andassimo da qualche parte.

Mi piace come si muove per la casa. Occupa lo spazio come se lo esplorasse.

Crede che a nessuno faccia bene tanta vicinanza con il passato. Che il passato non smetta mai di fare male, ma che possiamo aiutarlo a trovare un luogo diverso […] … Convivevamo con il dolore. […] Abbiamo sofferto e non dimenticheremo mai quel dolore, ma non possiamo neppure dimenticare il dolore degli altri.

Li costringevo a ricordare e poi mi ripetevo quei ricordi come se mi appartenessero. In un modo terribile e segreto, lei cercava il suo posto in quella storia.

Non domandiamo per sapere, domandiamo per riempire un vuoto.

Voglio farle desiderare una vita qui. Voglio intrappolarla di nuovo nel mondo da cui è fuggita. Voglio farle credere che è fuggita, che ha forzato la sua storia per perdersi nelle convenzioni di una vita comoda e ipoteticamente felice. Voglio farle odiare quel futuro placido nel Vermont.

Per un po’ restiamo lì, come malinconici prigionieri che accarezzano le sbarre.

Ha imparato fin da piccolo che nessuno ci avrebbe salvati.

Sento che nel mio linguaggio ci sono echi, ci sono vuoti.

Dedichiamo i giorni a ripassare un lungo elenco che enumera ciò che allora, da bambini, non conoscevamo. Ci crediamo innocenti, ci crediamo colpevoli, non lo sappiamo.

A volte abbiamo bisogno di vestirci con gli abiti dei nostri genitori e guardarci a lungo allo specchio.

Da anni ho scoperto che volevo una vita normale. Che volevo soprattutto stare tranquilla. Voglio una vita tranquilla, semplice. Una vita con passeggiate nel parco.

C’è dolore ma anche felicità nell’abbandonare un libro.

Eravamo stanchi di aspettare che qualcuno scrivesse il libro che volevamo leggere.

Ho creduto che cominciasse il momento dell’attesa in cui è possibile parlare solo dell’attesa.

Ora capiamo. Ma sappiamo poco. Sappiamo meno di prima.

Dovrei imparare a parlare al passato anche di me stesso. Ricordare le immagini nella loro pienezza.





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