martedì 23 aprile 2013

DIP / RUCK - Make me beautiful




Alcuni scrittori dicono che bisognerebbe tenere un quaderno sul comodino per annotare i sogni prima che evaporino dalla memoria, ma forse sarebbe meglio dimenticare certi incubi troppo vividi, o semplicemente rievocarli quando la brillantezza dei particolari si è smorzata a contatto con la banalità del quotidiano.


È la cauta procedura che ho deciso di adottare per raccontare le scene che si agitano ancora sullo schermo platonico del mio cervello a più di ventiquattro ore di distanza dal suono digitale della sveglia.


Questa è la storia goticamente contemporanea di una violenza da cesso.

Non ricordo com’è iniziata.

ESTERNO / NOTTE: Due studentesse con la divisa di un liceo giapponese – il fazzoletto verde annodato sotto l’ampio colletto alla marinara, la gonna a pieghe, i calzettoni lunghi al ginocchio – camminano in un viale alberato.

«Perché non entriamo a bere qualcosa?» deve aver proposto una delle due – bionda e troppo truccata di cajal nero. L’altra esita davanti a un’insegna al neon viola Las Vegas / rosso motel.

Dentro l’atmosfera è fumosa. Il bancone è vecchio, il barista shakera distratto un sospetto mix d’alcolici.

La biondina è sicura di sé; ordina (un daiquiri alla fragola?)

Subito si accosta un uomo. Ho conservato soprattutto il suo aspetto muscoloso, i bicipiti ben scolpiti, scoperti dalla canotta da basket. Ha un’aria crudele da mafioso russo: gli occhi piccoli e una zazzera tinta di platino che ricade in avanti sulla testa rasata.

I soliti convenevoli per attirare le prede.

Poi il set si sposata in un bagno. A essere precisi, non può essere quello del locale: è grande, piastrellato di bianco candeggiato e luminoso. Assurdamente luminoso se si considera ciò che sta per succedere.

Lui minaccia la tipa con un coltello. L’amica trema in un angolo come un coniglio impaurito e ha perso tutto il suo fascino (per il momento, la cancelliamo dalla trama).

La tipa – dicevamo – non cede agli ovvi strattoni animaleschi, però ha già la blusa strappata. «Se non fai la brava, ti scuoio questo tatuaggio!» (Il ramo di fiori di ciliegio che le decora la spalla finisce con un quadrifoglio: simbolo di fortuna e di voglia di volare cantando) «No ti prego! Ci tengo! Farò qualsiasi cosa!» Le lacrime le bagnano il viso trasformato in maschera tragica.

BREAK: Quando si spoglia docilmente, rivela un completo di raso nero / scarlatto troppo sexy per una bimbetta acqua e sapone. Improvvisamente sembra una di quelle barbie omologate dei telefilm americani (potrebbe essere Kimber, la pornostar rifatta ad arte, o una qualsiasi bambolina gonfiata).

Indubbiamente c’è un’aggressione che non vediamo. Poi un suggerimento ancora peggiore, lama alla mano « È un peccato doverti chiedere di usare un così bel culo …» (testuali parole).

Lei pare assuefatta. Inquadratura dello spazio vuoto e disinfettato con sottofondo di eloquenti grugniti. Di nuovo, possiamo solo supporre – Evidentemente la mia immaginazione, priva di esperienza sul campo, non è in grado di riprodurre una dinamica verosimile.

STACCO Il peggio è passato, ossia: la belva se n’è andata abbandonando la vittima sul pavimento al lisoformio.

Lei vomita in un cestino della spazzatura. La schiena scossa. La compagna (magicamente ricomparsa) cerca di sostenerla mentre il secchio si riempie e deborda.

Subito dopo devono averla accompagnata a casa, nella sua camera. Ha indosso un pigiama azzurro e rimane immobile sotto le lenzuola pulite, la trapunta tirata fino al mento, ma entra qualcuno.

Dalle circostanze desumiamo che si tratta di suo padre, anche se per me ha la faccia conosciuta dell’ex fidanzato di Hortensia. Ha scoperto i trucchetti alimentari della sua problematica figlia inappetente brandisce furioso le prove. «Che cazzo sono questi, eh?» «Per favore, non adesso» mormora lei, vinta e stremata. « “Non adess…”?» inizia ad urlare, ma basta un’occhiata al corpo dolorante e agli occhi svuotati per fermarsi e capire.

STACCO (Stavolta estremo e radicale): la biondina è stata rapita dal suo torturatore ed è diventata una lolita di pizzi scurissimi in una villa tetra (l’architettura è un incrocio tra Hitckock e Jane Eyre). Si è abituata – ci si abitua a tutto, in fondo – e non le pesa tanto essere rinchiusa nel ruolo di giocattolo senz’anima.

C’è anche un compare del sovietico: ha la funzione di carceriere apparentemente bonario e di cliente occasionale.

La fedele amica muta adesso è una specie di ancella fuori posto.

I giorni bui scorrono nelle stanze chiuse a chiave. La ragazza si sistema i capelli davanti a una consolle fin de siécle bordata di stucchi dorati. Il mondo è orrendo, lento e sonnolento.

Fino all’omicidio.

C’è un grande giardino circondato da un muro altissimo di mattoni anneriti. Gli alberi hanno tronchi pallidi, di flessuoso legno dolce macchiato di grigio-tortora e anche i fiori sono una nuvola leggera sull’erba. La nostra Victorian Kimber e il suo sorvegliante passeggiano sul sentiero, come una coppia d’innamorati nel cortile di un manicomio, ma chissà perché il cancello di ferro è aperto (o meglio, socchiuso) e lei all’improvviso estrae una specie di mannaia da macellaio e colpisce al braccio, tagliandolo via di netto.

Il tizio ha un’espressione stupita.

Il sangue tinge il prato accarezzato dal vento primaverile.

Lei guarda con disprezzo il cadavere (come mai si muore sempre in posizioni innaturali, quasi ridicole?), poi solleva l’orlo del vestito e corre via, libera.



Quando mi sono svegliata, ogni dettaglio era freschissimo nella mia mente, come se fosse appena finito un film di Tarantino, e – a causa dell’impatto emotivo – non ho realizzato subito che la protagonista di quel massacro ero io. Non sono mai stata figa, non mi sono mai nemmeno avvicinata alla definizione di “carina”, ma il tatuaggio – quello insidiato come merce di scambio per voglie bestiali – è il mio. L’avevo inciso sulla pelle nell’estate di Shibuya, per suggellare un voto fatto agli dei.

Quanto agli inganni … Beh, potrebbero essere una parte plausibile della verità.




http://youtu.be/OFDgHjnCa6Y


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