sabato 27 aprile 2013

LA FORMULA DI BOOGA



«Forse se vado in autobus, ce la faccio …»


Da stamattina, l’allerta meteo lampeggia inutile sui tabelloni della protezione civile, ma la neve è solo acqua fredda che non si ferma sui marciapiedi. « … Ci mancherebbe che nessuno uscisse più di casa per queste quattro gocce!»

«Beh, ma spesso la gente è obbligata ad andare al lavoro. Il tuo impegno non è mica un obbligo!»

Qui sta il problema: dato che io non faccio nulla che si possa esattamente chiamare “lavoro”, tutto lo diventa in maniera automatica, di sicuro inconscia. E così un concetto quasi fisico, per me si applica al costante sforzo intellettuale del mio cervello che macina parole – Immaginate Antonio Banderas che fa girare la ruota di pietra di un neuro-mulino (insieme alla gallina Rosita).

Le mille attività quotidiane si trasformano in un supplizio pianificato.

Valutando sconsolata la temperatura al di là dei doppi vetri del soggiorno, preparo con cura la mia armatura termica: collant, pantaloni felpati e calzettoni da sci infilati nei Doc Martens verd’insetto / maglia a collo alto sotto il maglione di lana; e persino una canottiera rubata a Cassy (quello strato in più che fa la differenza ma ha un’innegabile retrogusto di collegiale puritana).

Calco il cappello fin quasi sugli occhi, stringo il nodo della sciarpa. Il freddo mi brucia le dita anche attraverso i guanti e morde più intenso, dove il rigore del clima e l’avitaminosi mi hanno cotto la pelle.

Incurante del vento comincio a camminare. È così che immagino il nono cerchio dantesco; anzi, nella mia visione c’è anche una Donna delle Nevi dal bianchissimo kimono che tiene i traditori immersi a faccia in giù nel lago. Come avranno fatto i deportati in Siberia a resistere all’inverno? Come saranno sopravvissuti i prigionieri sull’isola di Sakhalin?

Piovono aghi che mi pungono le labbra.

Mi ricordano il rituale per diventare una divinità, inventato da una certa adolescente deviata. Bisognava tagliare il labbro inferiore e poi bere qualcosa di forte, in modo che il bruciore entrasse direttamente nella bocca – non sul palato o sulla lingua, ma proprio dentro, dove la carne è morbida e sensibile. Ora, dall’esterno mi vedo seguire il dogma alla lettera. Io sputavo fiori di fuoco su di un pezzo di carta cercando di rievocare Alissa, bambina addormentata, morta, cento volte Sperduta senza le girandole dei Jizô protettori.

Beh, non ha mai funzionato. Magari le macchie di Rorscharch non disegnavano la figura giusta per compiacere i numi.

I petali di vetro del cielo si sciolgono vorticando nell’aria … Potrei arrivare solo fino alla fermata.

Da mesi non salgo sui mezzi pubblici: un po’ per smaltire carburante in eccesso con il ritmo regolare dei passi, un po’ per non pagare il dazio a un servizio in evidente via d’estinzione.

È uno shock. L’odore di umano non lavato m’invade le cavità nasali con la potenza della putredine e cerco di spostarmi in avanti per sfuggire alla morsa di un misto di sudore, sporcizia e vino.

Timbro e mi siedo accanto alla cabina del conducente, scegliendo il seggiolino rialzato sullo pneumatico. Da piccola era il mio posto preferito perché vibrava sulle buche della strada trasmettendomi un tremore tellurico, ma erano altri tempi e le vetture erano carri armati indistruttibili con gli interi in simil-legno … Mi sistemavo, con i piedi che non toccavano terra, e succhiavo una gelatina di frutta spuntata per magia dalla borsa della nonna … Erano altri tempi …

Tiro fuori un libro dallo zaino. Nella storia, un ragazzino ha appena concluso il suo sciopero della fame contro l’alterigia materna. “E adesso cosa vuoi mangiare? Cosa ti farebbe più piacere?” chiede lo zio Georges. E io cosa risponderei a questa domanda?

Facile: Una mezza marinara. Con casatella, pomodoro e due foglie di basilico fresco.

Un sapore mediterraneo di latte e orto che rievoca un’infanzia di sorrisi e “rosee panettiere”. Da bere? Un’aranciata.

http://youtu.be/dMdWJpDgB1Y

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