domenica 31 marzo 2013

LA LEGGE DEL PESCE PALLA


Jane sistema il lunch box vuoto dentro a un sacchetto di stoffa giapponese «Stavo pensando di andare a vivere da sola. Devo vedere una casa nei vicoli, vicino al negozio di Beth».


Mi viene da pensare che un tempo mi piaceva quel posto, frugare tra i vecchi vestiti usati per tirarne fuori un paio di pantaloni vintage o magari una camicia da notte degli anni Trenta. Poi le taglie per adulti sono diventate un po’ troppo grandi per me. Ondine accende il tabacco aromatico della pipa vittoriana «Stai scherzando? Io sto cercando un posto! Non ne posso più delle mie coinquiline che cucinano cavolo alle tre del mattino!»

Senza parlare, osservo i movimenti esperti delle sue mani – le unghie smaltate tagliate all’americana. Mi ricorda Sylvia.

Mentre la materializzazione concreta del mitico appartamento 707 sta per trasformare le mie colleghe in una potenziale incarnazione delle due Nana – una circondata da un’aura di fiori e ansia, l’altra piena d’interessi e di rabbia pseudo-punk – e la loro amicizia si stratifica in una stretta simbiosi, la possibilità di un amore eterodosso si fa sempre più sfumata e mi sento esclusa dalle conversazioni che non so sostenere. Devo fare uno sforzo e trovare in fretta un argomento nell’ultimo cassetto della memoria. Certo, sarebbe facile buttar lì la miracolosa notizia su Ai Yazawa: pare che ricomincerà a disegnare dopo essere scomparsa per anni, schiacciata dal meccanismo triturante del business a fumetti … ma mi fermo prima che la mia voce tradisca riferimenti che non vorrei insinuare.

Ci siamo date appuntamento per curiosare insieme al nuovo minimarket cinese, nella zona del porto.

«Spero che abbiano il tè freddo della Asahi, lo bevevo sempre quando ero a Tôkyô !»

Per me era diventato una droga: lo compravo al supermercato in bottiglioni da due litri e tutti i giorni riempivo una bottiglietta da portare in giro. Se vendessero anche delle prugne umeboshi numerate sarebbe l’ideale perché ho già notato che, se si mettono sottaceto i frutti secchi italiani, si ottiene qualcosa dal sapore indefinito, forse non sgradevole ma comunque lontano anni luce dal modello originale. Già, “lontano anni luce”: proprio come me che cammino tre passi indietro, sul marciapiede freddo di febbraio …



Non sono fortunata: sullo scaffale, il posto tra le alghe e i dolcetti di riso, è vuoto. «Folnitore tolnelà settimana prossima» dice la donna massiccia alle casse. E le bevande hanno tutte un inquietante aspetto chimico e una lunga lista d’ingredienti scritti in mandarino. “Zucchero Bianco”, decifro alla quarta riga di quei codici stranieri e indico la parola, in modo che Jane confermi il mio sconforto.

Il gesto basta a farmi sussultare. Da quando lei ha interrotto gli studi di lingue asiatiche, ho sempre paura di ferirla, ma probabilmente esagero proiettando la mia sensibilità all’esterno

Mi è capitato mille volte di scoraggiarmi se non capivo una frase, se a lezione ero troppo lenta o se arrancavo seguendo i sottotitoli di un telefilm in streaming, ma non mi sono mai arresa. Non è che sia brava o particolarmente votata al martirio: semplicemente non saprei immaginare la mia vita senza quella misteriosa foresta di segni e per questo ho riversato un oceano di testardaggine nel compito quotidiano d’imparare pian piano, goccia a goccia.

Si dice che per leggere un giornale sia necessario conoscere almeno tremila ideogrammi … La strada è ancora lunga e affascinante!

«Se mi mandi il link con la descrizione, provo a ordinare quello che vuoi su internet» La gentilezza di Jane sembra arrivare da un mondo parallelo. I suoi occhi brillanti attraversano l’etichetta schivandola abilmente «Intanto consolati con un po’ di verdura fresca»

Scegliamo un daikon non troppo grande – da cuocere al vapore come una grossa rapa bianca o ridurre a julienne nell’insalata – e un ortaggio a foglia verde simile alla bietola, ma più piccola e tondeggiante (carina come il personaggio animato di una pubblicità progresso sull’alimentazione).



Lo stranissimo cetriolo butterato che faccio bollire per cena è amarissimo. Ho letto da qualche parte che alcune sostanze nocive sono naturalmente cattive per segnalare il pericolo all’organismo.

Solo gli chef più esperti sanno separare la carne di fugu dalla potente neurotossina che inibisce la funzione respiratoria e alcuni sono addirittura capaci di lasciarne una minima traccia, sufficiente a causare una leggera euforia e un formicolio sulla lingua.

Il confine tra l’ebbrezza e la morte è troppo labile per poterselo giocare sul filo di una lama da sashimi.





http://youtu.be/1Nj5dunIMLw

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